°°Lo SpeCChiO°°

Le InTeRViSTe

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*Ishtar*
icon12  view post Posted on 19/11/2005, 22:36




23 novembre 2003

RECITANDO LA GIOVENTU'

(di Carla Carrera)

E' un fiume in piena Alessio Boni mentre racconta i personaggi che interpreta. Con generosità, passione ed introspezione,descrive, ridisegnandone l’animo, Matteo Carati, il poliziotto-intellettuale, schierato contro le ingiustizie e colpito da disagio esistenziale, che ha magnificamente interpretato ne ‘La meglio gioventù’ il film di Marco Tullio Giordana, dal titolo di pasoliniana memoria, che dopo il successo cinematografico (al festival di New York è stato proiettato in un’unica soluzione lunga sei ore),la Rai manderà in onda a dicembre in quattro puntate.

Il film, sceneggiato da Sandro Petraglia e Stefano Rulli (sceneggiatori anche de ‘La piovra’), progettato da anni e girato in sei mesi, racconta senza retorica gli ultimi decenni della nostra storia attraverso le vicende di una famiglia borghese romana composta da padre (Andrea Tidona), madre (Adriana Asti) e quattro figli: Matteo appunto, sensibile e talentuoso studente di lettere che abbandona l’università e si arruola in Polizia, Nicola, psichiatra basagliano (un’eccezionale Luigi Lo Cascio), la BR Giulia (Sonia Bergamasco), Francesca (Valentina Carneluti) moglie di un’economista (Fabrizio Gifuni) finito nel mirino delle BR e Giovanna (Lidia Vitale) magistrato che ha sacrificato la sua vita privata per la professione.

Matteo viene interpretato con intensità da Alessio Boni che riesce a far vibrare il suo personaggio, interpretandone con assoluta credibilità il disagio dell’anima, il rigore, la fragilità, dilaniato com’è dai tanti interrogativi ed analisi che si affastellano nel suo ‘Parlamento interiore’. Con il suo interloquire al tempo stesso attento e spontaneo, rimanendo nella sua analisi con i piedi per terra, Boni riesce a far rivivere le emozioni del film, del suo personaggio che prende lo spettatore alla mente, al cuore e allo stomaco.

''La forza della ‘Meglio gioventù’ è stata l’umiltà e l’amicizia con cui abbiamo lavorato – racconta – Lo Cascio è come un fratello per me, abbiamo seguito negli stessi anni l’Accademia d’Arte Drammatica con Orazio Costa maestro di vita, condiviso le difficoltà economiche degli esordi e la passione per il teatro. Non abbiamo perso l’umiltà. Il regista ha impiegato tre mesi per la scelta del cast, dal quale dipende, come sosteneva Rossellini, gran parte della riuscita del film''.

Ma cosa c’è di Matteo in Alessio? ''Non sono così escatologico e cupo – racconta Boni – Ciò non vuol dire che non sia tormentato.

Apprezzo l’arte, la poesia e la letteratura, ho ideali e passioni e, come Matteo, mi impegno nel lavoro, aborro le ingiustizie e l’arroganza dei potenti. Anche la mia indignazione è interiore, sono intransigente quando si tratta di difendere il mio giardino interiore''.

Interessante è conoscere qualche episodio del back stage: ''Alcuni monologhi sono stati improvvisati su richiesta di Giordana che voleva sentire le mie corde interiori - rivela – Sostiene che ho un animo sottile e profondo, in comune con Matteo, che lo ha persuaso. Anch’io a ventanni come servizio militare ho fatto il poliziotto a Milano nella celere''. Le decisioni di Matteo sono travagliate e definitive anche con i suoi affetti. ''La sua è una tragedia dell’identità, un’impossibilità dolorosa, che traspare dal cuore e dagli occhi, ad accettare la vita e le ingiustizie – continua Boni – Matteo è sano e vero, ma non sa mediare né gestire la rabbia, il suo vulcano interiore. E’sensibile, intelligente e colto, non si immischia negli ingranaggi perché è profondamente libero''. L’analisi che Boni fa del suo personaggio è disarmante per la sua precisione: ''Matteo sente la sua disarmonia interiore ma capta l’armonia intorno a sé e nelle persone. Esplode quando non riesce a rapportarsi con Giorgia che è l’unica ragazza che gli fa vibrare il cuore. Nelle scelte importanti è determinato, ma travalica tutto fino alla scelta estrema della quale chissà forse si pente quando è troppo tardi. Volevo che la sua rabbia uscisse dai miei occhi e dai miei pori. E’ come se Matteo vivesse senza il filtro della pelle, sa di far male alle persone che lo amano e da con cui si sente a disagio- questo mi ha colpito - ma è così, il suo personaggio è stato scritto così e questo è il suo fascino''. Sereno il clima che si è respirato nei sei mesi di riprese, uno stato di grazia, lo definisce l’attore bergamasco, ormai da 15 anni a Roma. ''Giordana è stato abile nello stimolare lo spettatore con quei silenzi e gli spiazzamenti improvvisi. Ha sfatato un certo modo di fare TV imponendo tempi più lunghi e meditati. Fiction come Perlasca, Montalbano o Coppi dimostrano che si possono ottenere ottimi risultati anche in TV che ha ritmi più veloci''.

A proposito di fiction ricordiamo l’interpretazione di Alessio in ‘Incantesimo’ (era Marco Oberon nella III e IV serie), nell’Altra donna’, nella ‘Donna del treno’ di Carlo Lizzani. Ora lo aspettano tre mesi di riprese in Cecoslovacchia per ‘Cime tempestose’ dal romanzo di Emily Bronte che la Rai trasmetterà in due puntate per la regia di Fabrizio Costa. ''Catherine sarà interpretata da Anita Caprioli, il ruolo del cattivo spetta a Franco Catellano. La Bronte con questo amore assoluto ha anticipato il romanticismo del ‘900. Mi sto concentrando sul personaggio leggendo testi ed ascoltando la musica di metà Ottocento. Sarò Heathcliff , uno zingaro che per l’amore ossessivo per Catherine diventa semifolle e aspetta di morire per ricongiungersi a lei, un ruolo il mio che aveva già interpretato Lawrence Oliver''. Non c’è nulla di più rivoluzionario dei sentimenti. ''In fondo – conclude Boni – l’avanguardia risiede nei sentimenti e l’abilità dell’attore, oltre che nel talento, sta nel rappresentarli per il pubblico''.

Chi si trovasse in Italia potrà vedere l’attore interpretare a teatro- sua grande passione - a marzo con Rosalinda Celentano ‘La formula’ (‘The proof’) di David Auburn, premio Pulizer, recitato con grande successo a Londra dalla Palthrow.




 
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*Ishtar*
view post Posted on 19/11/2005, 23:21




DUE O TRE COSE CHE SO DI LUI
Alessio quando (non) era Matteo


intervista a cura di Gabriele Barcaro

“Apparire, mostrare non basta: occorre essere”
- Konstantin S. Stanislavskij -



Entrando in sala per assistere alla proiezione de La meglio gioventù, quando non s’era ancora del tutto profilata la portata del successo che in qualche settimana l’avrebbe consacrato “film-evento” della stagione cinematografica italiana ed europea, sapevamo che nel buio avremmo riconosciuto sul grande schermo un gruppo d’attori ed attrici – da Fabrizio Gifuni a Sonia Bergamasco, da Andrea Tidona a Maya Sansa a Luigi Lo Cascio, senza contare quel monumento dello spettacolo che risponde al nome di Adriana Asti – che in questi anni ha saputo farsi voler bene da un pubblico sempre più numeroso; un solo nome – tra i molti che campeggiavano sui manifesti, per le strade o negli androni dei cinema – un solo volto non sembrava familiare alla nostra memoria di spettatori, non infallibile certo ma pur sempre affidabile. Appartenevano, quel nome e quel volto, ad Alessio Boni: chi era costui? Nel buio della sala, nei panni di Matteo Carati, non tarderà a rivelarsi come il vero protagonista di un film dalla complessa struttura corale come La meglio gioventù.
Da quel momento per noi – ma non solo per noi, ne siamo sicuri – Alessio è Matteo: la contraddittorietà e il tormento, la fragilità e l’inquietudine, l’irrequietezza e la sofferenza, la bellezza e la drammaticità di quel personaggio.
Non è questa la sede giusta per approfondire le ragioni che fanno della prova di Boni una dimostrazione maiuscola di sensibilità interpretativa: analisi più dettagliate – condotte da analisti forse più accurati – si occuperanno, speriamo già da domani, dell’argomento.
Ciò che oggi c’interessa di più, e ci ha spinto ad incontrare Alessio Boni, è da un lato fare il punto – a bocce quasi ferme, con La meglio gioventù che sta per completare il suo periglioso ma fortunato percorso con la messa in onda televisiva e con lo sfruttamento per l’home-video – su un evento cinematografico che è stato anche, caso piuttosto raro di questi tempi, un vero e proprio fenomeno di costume; dall’altro fare, o per i più fortunati approfondire, la conoscenza di un attore che, lungi dall’esaurirsi nel personaggio di Matteo Carati, ha dato prova di sé misurandosi con forme espressive le più diverse, che ha conosciuto gli anni duri della gavetta prima di raggiungere il successo, che ha superato ostracismi e pregiudizi, e che proprio in virtù di queste esperienze si fa attendibile testimone di una certa condizione in cui oggi versa il cinema nel nostro Paese.
Le due prospettive s’intrecciano, perché – non ci si accusi d’ingiustificato allarmismo – la condizione cui si accennava poco fa desta qualche preoccupazione, dando l’impressione che non si sappiano riconoscere i talenti, o quel che è peggio che non si vogliano valorizzare le migliori intelligenze della scena contemporanea: non si spiega altrimenti perché solo a trentasei anni un attore come Alessio Boni possa aspirare ai ruoli da protagonista che merita; o perché ancora oggi, nonostante il bagaglio di lavoro ed esperienza che porta con sé, si continui a considerarlo un emergente. A poco sembra valere la professionalità e la versatilità poliedrica dimostrate in televisione, alla radio e al cinema, ma soprattutto in teatro, dove ha lavorato con alcuni grandi e grandissimi della scena nazionale ed internazionale: da Orazio Costa – che lo dirige in La vita è sogno di Calderon de la Barca – a Luca Ronconi, per il quale interpreta Peer Gynt di Henrik Ibsen; da Giorgio Strehler – che gli affida il ruolo di Clevante nella sua regia-testamento, il celebre Avaro di Moliére con Paolo Villaggio – a Peter Stein, che lo sceglie come Lisandro in un suo “Sogno di una notte di mezza estate”. Senza contare le incursioni sui palcoscenici dei teatri d’opera, da L’alzira di Verdi – con la regia di Gustav Kuhn – a Lodoiska di Luigi Cherubini, diretta da Riccardo Muti per la regia, ancora una volta, di Ronconi; e ancora di meno pare contare l’esperienza da regista – vissuta insieme con altri attori tra cui l’amico di sempre: Luigi Lo Cascio – de Il labirinto di Orfeo.

Con il cinema è meno fortunato, perché se si esclude una partecipazione giovanile a Dove siete? Io sono qui di Liliana Cavani, i ruoli importanti arrivano con film ambiziosi, ma sfortunati quando non invisibili: Il diario di Matilde Manzoni di Lino Capolicchio, in cui interpreta il genero dell’autore de “I promessi sposi”, stenta a trovare un suo pubblico, ma non va incontro a sorte migliore neppure Arrivano gli Italiani d’Eyal Halfon, co-produzione italo-israeliana con Franco Nero protagonista, che nonostante gli sforzi dei produttori non ha mai imboccato la via delle sale (“Sono curioso del risultato, non ho mai avuto la possibilità di vederlo” ci confessa lui stesso).
Ad accorgersi per primo di Boni è il pubblico televisivo (quello femminile in particolare) che impara a conoscerlo in un pugno di film-tv e miniserie – è Giovanni Battista in Maria figlia del suo figlio, ma anche il fratello di Massimo Dapporto in Un prete tra noi – per poi catapultarlo tra le star del tubo catodico con la terza e la quarta serie del fortunatissimo Incantesimo. È il culmine della fama, della popolarità: ma non è il divismo la priorità del nostro, che preferisce rinnovarsi e rischiare, tentando strade nuove. Il resto è storia recente o recentissima, dall’exploit de La meglio gioventù alla nuova versione di Cime tempestose, ancora una volta per la televisione, co-produzione europea (partner italiano è la Titanus di Goffredo Lombardo: un nome, una garanzia) che lo “costringerà” – pochi giorni dopo aver rilasciato quest’intervista – prima a volare in Inghilterra per riprendere confidenza con la lingua – già imparata durante un viaggio giovanile negli Stati Uniti – e poi a trasferirsi a Praga per l’inizio delle riprese.
L’appuntamento, in un angolo appartato e inaspettatamente tranquillo del centro storico romano, dimostra una volta di più che i posti che amiamo, gli stessi che frequentiamo e dove scegliamo di abitare, ci somigliano. Il luogo, infatti – una piccola piazza lontana dal traffico e dal rumore del turismo di massa, a metà strada tra Palazzo Madama ed il Pantheon – l’ha scelto lui, e ci piace pensare che non sia puramente casuale. È bello ma dissimula la propria bellezza, è affascinante ma non sembra voler esibire il proprio fascino ad occhi indiscreti, è consapevole del proprio charme ma pare non curarsene, è chiuso in se stesso ma si apre – e si offre senza ostentazione – ai pochi vicoli che vogliono penetrarne l’essenza, e alle persone che quei vicoli decidono di percorrerli, incuranti di strade più blasonate. È una descrizione del luogo – questa appena tracciata – oppure l’identikit, impreciso ma in fondo attendibile, della persona che l’ha scelto come teatro per un incontro?
Sulla questione preferiamo non esprimerci, perché l’indagine sulla natura privata del nostro interlocutore non è neppure contemplata tra i nostri intenti. Vorremmo limitarci a testimoniare quanto divertente è stata la scommessa d’intervistare Alessio Boni: divertente, ma rischiosa come ogni scommessa, perché gli appunti presi ed i “progetti di domanda” meditati a lungo, tutto è stato (s)travolto dal flusso quasi ininterrotto della conversazione, che poco o nulla ha concesso alla logica implacabile, e spesso noiosa, della domanda/risposta.
È stata una conversazione, ma il dialogo ha lasciato spesso il campo al monologo di chi di cose da dire ne ha molte, e ne sente l’urgenza: l’intelligenza pesa soppesa e sceglie i vocaboli, poi la voce (“guai a chi me la tocca”, risponde quando gli domandiamo se sarà doppiato nella versione di Cime Tempestose destinata al mercato internazionale) li pronuncia con l’attenzione scrupolosa – e l’altrettanto scrupolosa dizione – di chi conosce l’importanza profonda e a volte trascurata delle parole; il suo è un discorrere piano e misurato, che dà corpo ai pensieri senza forzarli, che cerca nel proprio lessico la formula migliore per esprimerli, e quando non la trova – ma sono casi rari – si affida alla mimica, al gesto, al movimento.

Non è l’esibizionismo di chi – attore nella vita oltre che sulla scena – non sa smettere di recitare neppure lontano dal palcoscenico o dal set, ma la conferma che per l’uomo e l’attore Alessio Boni il “cosa si dice” è più importante del “come si dice”: e se le parole – semplici o ricercate, non importa – non riescono a star dietro al pensiero, allora è meglio affidarsi al linguaggio e ai segni del corpo.
Sono queste le due o tre cose che sappiamo – o che pensiamo di sapere, e siamo certi di apprezzare – di lui. Speriamo che averle raccontate, in questa sin troppo estesa introduzione, aiuti a cogliere quanto non riesce ad emergere – il lettore giudichi se per inadeguatezza della formula-intervista o per incapacità dell’intervistatore – dalle domande e dalle risposte che seguiranno, e che sono il cuore di questo nostro tentativo: conoscere meglio Alessio Boni, anche quando (non) era Matteo.

Gabriele Barcaro (GB): Iniziamo dal personaggio che interpreta nel film La meglio gioventù: chi è Matteo Carati?

Alessio Boni (AB):È un ragazzo, e poi un uomo, fragile e dotato di una sensibilità troppo spiccata che non gli permette di sopportare il mondo che lo circonda, afflitto – come si sarebbe detto all’epoca – dalla “meccanicizzazione” delle anime. Negli anni ’60 intrisi della poesia d’Allen Ginsberg, Matteo vorrebbe amare tutti ma non riesce a farlo, perché non se ne riconosce capace: decide così d’entrare in polizia, per avere delle regole da dover applicare, per obbedire ad ordini e decisioni impartiti da altri. Trasferendosi e viaggiando per servizio di città in città, finisce paradossalmente per chiudersi in un mondo tutto suo.

GB:È un personaggio molto complesso: uno di quei ruoli che ogni attore spererebbe di interpretare almeno una volta nella vita?

AB:Dopo aver visto il film Lino Capolicchio (che lo ha diretto nella sua seconda opera da regista, “Il diario di Matilde Manzoni”, ndr) mi ha chiamato per congratularsi e scherzando sulla sua fortunata carriera d’attore mi ha detto: “Se un personaggio così ti ricapita altre due volte, accendi un cero alla Madonna... ho girato Il giardino dei Finzi Contini, ma un ruolo come quello interpretato nel film di De Sica non l’ho trovato mai più”.

GB:Al Festival di Cannes il film è stato presentato nella sua interezza, nelle sale italiane è uscito diviso in due atti per assecondare presunte esigenze del pubblico: quale tipo di “approccio” si sente di consigliare?

AB:Consiglio a tutti di vederlo almeno due volte: ma premesso questo, prima e seconda parte andrebbero viste senza soluzione di continuità, o almeno evitando di lasciar passare troppo tempo tra la visione dell’una e dell’altra. È il modo migliore per apprezzare certi momenti goliardici e divertenti della prima parte, e per comprendere a pieno il senso di quella “lentezza” che alcuni hanno rimproverato alla seconda.

GB:Non a caso la più criticata...

AB:Molti hanno atteso troppo prima di “terminare” la visione: chi si aspetta un secondo atto in linea con il ritmo e con il clima scanzonato del primo rischia di sottovalutare la bellezza dolente del secondo. Più fragile, ma non meno riuscito: per questo va protetto con una passione e con una convinzione ancora più grandi.

GB:Le perplessità più forti di parte del pubblico investono il sottofinale: la “riapparizione” di Matteo ad alcuni non è proprio piaciuta...

AB:È una delle poche scene non previste in fase di sceneggiatura: l’idea è in tutto e per tutto di Giordana. Avevo terminato le riprese già da qualche tempo, quando Marco Tullio mi richiamò di corsa sul set, spiegandomi cosa intende fare. Ero perplesso, però mi sono fidato della sua intuizione. Quella scena, infatti, con Matteo che sembra aver raggiunto finalmente la serenità che gli è sempre mancata, è un momento di poesia, e per questo non lascia indifferenti: dal fraintendimento della poesia all’irritazione, poi, il passo è breve.

GB:Si sarà fatto un’idea di come sia maturata quella poesia?

AB:È come se Marco Tullio avesse visto il film finito e si fosse accorto che senza quella scena, semplicemente con Mirella e Nicola che si baciano, sarebbe mancato qualcosa d’importante. Matteo è sempre presente, anche nell’assenza fisica: nei ricordi e nei pensieri, nei discorsi come anche nelle azioni di tutti gli altri personaggi. Questa presenza il pubblico la sente, e il ritorno di Matteo regala un sentimento alto, nobile, bello: è il frutto di una grande ispirazione, di un’intuizione interiore, sedimentata a lungo. Per questo parlare di caduta di stile, come qualcuno ha voluto fare, non ha senso. È la scelta, profondamente meditata, di un autore: e come tale va rispettata.

GB:Secondo alcuni questa scelta coraggiosa è come vanificata da un finale edulcorato e semplicistico: quanto ha contato l’origine televisiva sul risultato definitivo e complessivo?

AB:Credo che il finale rispetti l’esigenza di rivolgersi al pubblico del piccolo schermo, in accordo con la natura iniziale del progetto: un film in quattro puntate per la televisione. La meglio gioventù sarebbe stato molto diverso se il destinatario originario fosse stato il pubblico cinematografico: la durata, tanto per cominciare, sarebbe stata ridotta, con ogni probabilità addirittura dimezzata.

GB:Un film per la televisione che ottiene tanto successo e vince tanti premi è un caso raro...

AB:Unico nel suo genere, piuttosto: i pochi film pensati per la televisione e usciti in sala, anche con successo, hanno sempre “scontato” una riduzione per il grande schermo. Penso a Scene da un matrimonio e Fanny e Alexander di Bergman: entrambi passati dalla durata televisiva originaria di sei ore a quella cinematografica, circa la metà. Giordana, al contrario, ha insistito perché il film non fosse “rimaneggiato” o scorciato: al cinema già era stato visto tutto ciò che a dicembre è passato sul piccolo schermo. In questa scelta sta l’unicità dell’evento, e nel successo oltre ogni previsione, che francamente ci ha sorpreso: successo di pubblico, in primo luogo, ma anche presso la critica e le giurie internazionali! L’invito a Cannes, il premio vinto nella sezione Un certain regard e la corsa per la nomination italiana all’Oscar per il film straniero sono tutti traguardi che non pensavamo di tagliare (qualche settimana dopo l’intervista sono state annunciate tre candidature agli European Awards, nessuna andata a buon fine: per il Miglior Film, la Migliore Sceneggiatura e il Miglior Protagonista, ndr)

GB:Lei insiste molto sulla lunghezza del film: una riduzione lo avrebbe snaturato?

AB:La lunga durata è il valore aggiunto. Le sei ore in cui si snoda il racconto permettono al pubblico di assimilare un quarantennio di storia italiana; danno il tempo di capire, di entrare nel vivo di quegli anni difficili, duri, contraddittori, ricchi d’illusioni e di disillusioni. C’è bisogno di tempo per sedimentarli, e c’è il rischio di correre troppo, di procedere troppo in fretta: soprattutto nel secondo atto, con gli eventi descritti per pennellate rapidissime. Nel film però c’è, se non tutta, almeno buona parte dell’Italia del secondo dopoguerra: i grandi eventi, dall’alluvione di Firenze alla mafia al terrorismo, accanto ai cambiamenti del costume, passando per due mondiali di calcio.

GB:È merito di una sceneggiatura che sa evitare le trappole della pedanteria e del pressappochismo sociologico...

AB:Un esempio su tutti è il tema spinoso ed importante dell’omosessualità, un tabù nella società italiana degli anni ’60: risolto in un unico breve dialogo tra Nicola e suo padre, semplice ed esaustivo allo stesso tempo. Ad aggirare la pedanteria, poi, ci pensano alcune scelte geniali della sceneggiatura: ad esempio, è sublime il modo in cui Rulli e Petraglia hanno affrontato il capitolo dedicato alle vicende di Tangentopoli, senza mettere in mezzo i palazzi di giustizia, i politici e gli imprenditori, ma servendosi ancora una volta di un semplice dialogo, stavolta tra Nicola, incaricato di redigere una perizia psichiatrica per il tribunale, ed un pesce piccolo arrestato per concussione. È il confronto lucidissimo tra due uomini che hanno fatto scelte di vita diverse, addirittura antitetiche.

GB:Dovendo indicare un tema soltanto – tra i molti toccati dal film – quale sceglierebbe come leit-motiv?

AB:Uno dei nuclei narrativi centrali è la chiusura dei manicomi, la riforma degli ospedali psichiatrici: per questo nel corso delle sei ore ritorna spesso il nome di Franco Basaglia, un uomo che ha davvero cambiato le sorti dell’Italia. Con “La meglio gioventù” Rulli e Petraglia continuano su quella strada d’impegno personale che percorrono sin dagli anni ’70, quando insieme a Silvano Agosti e Marco Bellocchio realizzarono “Matti da slegare/Nessuno o tutti”.
Nella scelta professionale compiuta da Nicola, come anche nel personaggio di Giorgia, si ritrova l’attenzione verso la follia schizofrenica; e inoltre, seppur in misura minore, l’indagine del “disagio psicologico” è anche una chiave di lettura importante per il personaggio di Matteo.

GB:Una sceneggiatura tanto complessa avrà richiesto una preparazione piuttosto lunga: quanto hanno impiegato Rulli e Petraglia a scrivere il film?

AB:Una vita intera: volevano girare La meglio gioventù già nel 1973, prima ancora di Matti da slegare. Nell’impossibilità di realizzarlo, hanno continuato a lavorare al progetto. Sin dall’immediato “dopo ‘68”, il film ha preso forma parallelamente alle loro esistenze, e all’esistenza dell’intero Paese: dentro c’è la vita e l’esperienza di due uomini, prima ancora che il talento di due sceneggiatori. Per questo chi ha vissuto quella stagione rivede se stesso sullo schermo: Rulli e Petraglia hanno costruito una storia del tutto verosimile, che risponde alla perfezione allo spirito dell’epoca. Hanno messo nel film, e soprattutto nel personaggio di Matteo, una parte della loro giovinezza, inserendola nelle coordinate più vaste di un’intera generazione: l’impegno sul fronte della “questione psichiatrica”, ma anche la leggerezza, con un mito – quello di Capo Nord e del sole a mezzanotte – che rappresentava il desiderio di esplorare, di raggiungere l’altra parte del mondo, l’ignoto.

GB:Sulla carta si correva il rischio di un film tutto “di sceneggiatura” e poco “di regia”: com’è stato superato?

AB:È inevitabile quando si lavora su una sceneggiatura d’estrema qualità (ed a questi livelli sono davvero pochissime) come quella di Rulli e Petraglia: Marco Tullio Giordana, però, ha trovato un equilibrio, uno sguardo ed un modo di girare tutto suo, che ha permesso al film di superare quel rischio. Alcuni vedono l’influenza di Luchino Visconti, o di altri grandissimi, ma è un “indirizzo” personale, e bellissimo. Lavorare con lui significa scoprire la sua sensibilità nella direzione degli attori: il rapporto con il cast e i risultati che ottiene dagli interpreti sono unici nel panorama italiano di questi anni. Le sue scelte formali, le sue soluzioni stilistiche non sono mai fini a se stesse. Un esempio? In scena ci sono Matteo e Giorgia, e la messa a fuoco alternata cattura l’attenzione e l’emozione dello spettatore più di quanto non farebbe qualsiasi movimento anche più elaborato: la grandezza di un regista sta anche nell’evitare le trappole del virtuosismo artificioso, e Marco Tullio lo sa. Per lui il movimento di macchina – che pure non manca, ma ha sempre un perché – non è mai un fine, ma sempre il mezzo per rendere un’emozione.

GB:Nelle sue parole si legge un trasporto non comune per un progetto non comune: condiviso anche dagli altri attori “coinvolti”?

AB:Realizzare La meglio gioventù non è stato facile, ed è stato necessario superare diffidenze e ostacoli di varia natura: dal budget contenuto ad un cast senza “divi” di sicuro richiamo; ad ottobre, poi, a riprese già concluse da almeno tre mesi, mentre si cerca di montare in vista della messa in onda originariamente prevista per il dicembre del 2002, Marco Tullio si accorge che mancano alcune scene, e che bisogna rigirarne una con me e Gigi (Lo Cascio, ndr). Così è stata ricomposta una mini troupe, e sono stati “riconvocati” anche tecnici già impegnati su altri set: hanno girato di sabato e domenica, senza esigere alcun compenso. Altro che “prestazioni straordinarie”.
Da parte nostra noi attori non potevamo che adeguarci al clima generale d’affetto espresso dalle maestranze, alla riscoperta di quella dimensione artigianale del cinema irrinunciabile per poter parlare di settima arte: ridurlo a catena di montaggio, automatica e meccanica, significa smarrire gran parte della magia, del fascino e della qualità che il cinema può esprimere. Solo il trasporto manifestato ad ogni livello ha permesso i risultati che si vedono sullo schermo: la dimostrazione che, quando si ama davvero qualcosa, l’esito non può che essere buono.

GB:La meglio gioventù è anche un film d’attori, e non a caso il cast è tra le cose più apprezzate da pubblico e critica: fra i molti interpreti mi permetta di citare due donne, Adriana Asti e Sonia Bergamasco...

AB:Sonia ha compiuto un lavoro straordinario, e il successo personale che sta ottenendo risarcisce in parte il silenzio immeritato che ha accompagnato alcuni bei film interpretati in passato, con la stessa bravura d’oggi e di sempre. Il pubblico comprende tutta la bellezza di Giulia, il suo personaggio, quando nelle ultime scene la ritrova spenta nel suo grigiore, quasi senza vita dopo la rinuncia alla maternità, agli affetti, alla musica, in nome dell’ideologia: per questo si commuove quando madre e figlia si riabbracciano, dopo anni di separazione. La centralità del personaggio di Giulia è anche confermata dal suo essere protagonista, magari indirettamente, di dialoghi toccanti che hanno la forma d’aforismi di profonda dignità morale: come il “volevate mettere il mondo a ferro e fuoco e ora dovete chiedere il permesso al sacrestano” con cui sua figlia Sara le rimprovera di non voler suonare l’organo per lei; o le parole che Nicola rivolge a Sara per consigliarle come comportarsi nei confronti della madre “Sei felice? Allora è arrivato il momento di essere generosi”.

La signora Asti (non la chiama per nome, il rispetto per i maestri si manifesta anche cosi, ndr),nelle sequenze che seguono il suicidio di Matteo, è il geroglifico della “mater dolorosa”: e lo spettatore può avvertire la “verità” di quel dolore grazie al pudore, alla dignità, alla compostezza dei gesti di questa straordinaria attrice che – protagonista, mai abbastanza ricordata e ringraziata, di tante indimenticabili pagine del nostro cinema – ha forse trovato, in questa parte di madre e vedova addolorata, il ruolo della sua vita. Tra la regia di Giordana e la recitazione della signora Asti si è creato un equilibrio perfetto, miracoloso come lo spartito di un’opera musicale: se si toglie anche solo una nota, perde bellezza ed armonia. Tutti noi sul set ci chiedevamo come riuscisse a tratteggiare un personaggio tanto bello, come facesse a restituirne la serenità e la naturalezza. Allo stesso modo, restavamo tutti rapiti quando, parlandoci dei suoi esordi, ci raccontava – e sembrava di leggere le pagine di un romanzo – aneddoti ed episodi vissuti insieme ai grandi nomi con cui ha recitato, da Visconti a Pasolini, da Bunuel a Bertolucci. Lavorare con un’attrice di tale e tanta esperienza(il discorso si allarga a Marisa Fabbri e Laura Betti, altre due signore con cui Boni ha lavorato in passato, ndr)significa avere un privilegio impagabile: l’occasione d’assorbire ed imparare lezioni che possono sembrare inutilizzabili proprio per la perfezione inarrivabile che esprimono, o perché lontane dal proprio modo di recitare o di concepire questo mestiere, ma che al momento giusto – e quel momento può arrivare anche dopo anni – tornano a farsi sentire ed apprezzare, perché fanno parte ormai del nostro bagaglio, consapevole o inconscio che sia.

GB:Il segreto di un casting tanto azzeccato?

AB:La libertà: pochi registi sono disposti a dimenticare i pregiudizi, a scavalcare i preconcetti. Per Giordana non conta che nel passato di un attore ci sia il teatro piuttosto che la televisione, il cinema piuttosto che il fotoromanzo. Ogni autore vero dovrebbe comportarsi allo stesso modo: dovrebbe ignorare le etichette, sempre appiccicate con troppa fretta, che possono ghettizzarti ed incatenarti ad uno stereotipo; dovrebbe assegnare i ruoli anche contravvenendo alle leggi del marketing, secondo una strategia che solo lui sembra conoscere, ma che poi si dimostra foriera di scelte azzeccate.

Escludendo gli attori professionisti, due casi descrivono bene la libertà con cui Giordana sa operare in fase di casting: chi immaginerebbe, per esempio, che il professore-dinosauro che applicando il coefficiente di simpatia premia con un trenta il primo esame di Nicola è, nella vita di tutti i giorni, un valente sassofonista? Ha girato quella scena tre volte, e n’è uscita una delle perle del film. Allo stesso modo, chi azzarderebbe che uno dei matti che prendono la parola nelle scene del processo, e per la precisione quello che testimonia “Ho stretto così forte le mascelle che mi si sono rotti tutti i denti di sopra”, è un portiere di Torino? Ha cercato la giusta concentrazione, e l’ha trovata: se la cava da attore di consumata esperienza.
Con questo non intendo sostenere un’ascendenza neorealista nel modo in cui Giordana sceglie gli attori: almeno non nel senso piuttosto semplicistico che oggi si associa comunemente all’aggettivo neorealista. Non rifiuta i professionisti, né chiama le persone prese dalla strada ad interpretare loro stesse: sa cogliere, però, l’anima del personaggio anche in un non professionista, simile in questo al Vittorio De Sica che affida ad uno stimato professore universitario di glottologia il ruolo di protagonista in Umberto D.

GB:Attori, pregiudizi ed etichette: è una triade che c’introduce ad un discorso più marcatamente personale sulla sua carriera e sulle sue scelte professionali. Cominciamo dal principio...

AB:Avevo ventidue anni quando, finito il servizio militare in polizia, ho iniziato a lavorare come animatore nei villaggi turistici. Quella doppia stagione, invernale ed estiva, mi ha iniziato alla passione per l’interpretazione, per lo spettacolo, anche se al livello del puro intrattenimento: coprivo piccoli ruoli, che mi permettevano di imitare la camminata, i gesti delle persone. Insieme alle prove, era ciò che mi piaceva di più: è paradossale, ma l’esibizione vera e propria m’inibiva. Troppi spettatori: il pubblico mi metteva in imbarazzo, ed io non mi sentivo all’altezza.

GB:Poca sicurezza ed una timidezza spiccata: non sono buone premesse, eppure...

AB:Il capo-animatore, forse intuendo un mio talento, mi suggerì di tentare la strada del Centro Sperimentale di Cinematografia: senza sapere neppure di cosa si trattasse, decisi di affrontare il concorso d’ammissione. Dopo aver superato le prime selezioni mi trovai di fronte una commissione esaminatrice d’eccezione: Giulietta Masina, Luigi Comencini e Mauro Bolognini. Fu il mio primo incontro con il cinema vero: allora non conoscevo neppure i codici espressivi di base. Fino a quel momento avevo lavorato come piastrellista insieme a mio padre a Sarnico, il mio paese di appena 5000 abitanti in provincia di Bergamo. L’attore era l’ultima cosa che immaginavo di fare nella mia vita: qualcosa di così “alto” da sfiorare l’utopia.
Tornando all’esame: andò bene, anche se scoprii troppo tardi che ci sarebbe stato bisogno di una spalla, e non nel senso anatomico del termine. Non avendo portato nessuno, recitai da solo il dialogo tra un uomo e una donna che avevo preparato: il risultato fu divertente, almeno a giudicare dalla reazione dei commissari. Mi “classificai” undicesimo, ma la metà dei posti disponibili – cinque su dieci – era riservata alle attrici: e così fui il primo degli esclusi!

GB:Non si direbbe un esordio incoraggiante: cosa pensò di fare dopo quel primo “fallimento”?

AB:Credevo che l’avventura di quel sogno fosse finita. Avevo deciso di trasferirmi a Milano, dove avrei studiato psicologia, quando alcuni amici mi “trascinarono” a forza a teatro: in cartellone c’era La gatta Cenerentola di Roberto de Simone, nell’allestimento, rimasto famoso, con Beppe Barra ed Isa Danieli.
Quella serata al Teatro Sistina mi “scoperchiò” la testa: c’era una tale intensità in ogni parte dello spettacolo, nelle coreografie e nella musica, nelle scenografie e nelle voci che, uscendo dalla sala ripetevo “Nella mia vita voglio fare questo”. Non avevo capito molto di quello spettacolo recitato e cantato in dialetto napoletano del XVII secolo; in compenso avevo imparato una lezione importantissima: per amare qualcosa non è necessario comprenderla.
Era ottobre e molti corsi di recitazione erano entrati nel vivo delle lezioni già da qualche settimana, ma l’indomani, dopo aver abbandonato il proposito di andare a Milano, iniziai la ricerca di una scuola disposta a prendermi: ho cominciato a frequentare le lezioni d’Alessandro Fersen prima, poi quelle d’Andrea Sarallis, e nel frattempo conducevo una specie di doppia vita comune ai tanti studenti fuori sede che, per mantenersi, lavorano come camerieri; di sera servivo ai tavoli, e di giorno studiavo Stanislavskij, la storia del teatro e della musica, imparavo i codici, approfondivo la lettura dei testi.
Cominciavo a capire qualcosa in più, quando iniziai a chiedere in giro quale fosse la scuola più difficile, quella in cui entrare era davvero “impossibile”. Mi rispondevano tutti allo stesso modo: l’Accademia d’arte drammatica. Proprio per questo, forse, provai: e stavolta mi presero.

GB:L’Accademia può considerarsi il vero luogo della sua formazione...

AB:Dall’Accademia ebbe inizio tutto. I tre anni passati in quella scuola mi hanno dato la possibilità di apprendere dalle parole, e non solo, dei grandi maestri: talvolta gli stessi maestri che già avevano insegnato il “mestiere” a tanti attori di valore, e non solo di successo, che negli anni avevano frequentato gli stessi corsi, e ascoltato le stesse lezioni.

GB:Grandi maestri: Orazio Costa, per esempio...

AB:È la figura che ricordo con maggiore riconoscenza. È stato il pedagogo più valente, e per dimostrarlo basta citare alcuni nomi d’interpreti, appartenenti a generazioni diverse, che al suo insegnamento devono la propria formazione: da Nino Manfredi a Vittorio Gassman a Gian Maria Volontè, da Giancarlo Giannini a Carlo Cecchi a Gabriele Lavia.
Con il senno di poi mi sono accorto che non è stato un maestro solo in senso accademico: fu il primo a farmi capire come per essere un buon attore siano fondamentali le percezioni della vita vissuta che possono, e talvolta devono, essere portate in scena.

GB:Possiamo approfondire l’argomento?

AB:Senza quelle percezioni, se alle spalle del lavoro d’interprete non affiora l’esperienza dell’uomo, si può darla a bere una volta, se si è fortunati anche due: presto o tardi, però, il pubblico se n’accorge sempre. È come se ci fosse un anello di congiunzione tra la vita vera e ciò che si porta in scena: non è vero che recitare è fingere, tutt’altro. Bisognerebbe comportarsi come il bambino di cinque anni: se gli si chiede di fare la formica, la fa credendoci fino in fondo. Non è un caso che in francese “recitare” si traduce con il verbo “joue”, lo stesso che si usa per “giocare”: occorre riappropriarsi della dimensione ludica, riacquistare la gioia del gioco e crederci fino in fondo.
Solo vivendole, possono uscir fuori le suggestioni e le emozioni, poco importa se ordinarie o straordinarie, di un personaggio. Viverle significa sentirle partire dal corpo, da un’urgenza interiore: significa sentire le emozioni che nella gola si fanno parola.
Recitare ex-novo, senza vivere, vuol dire solo dar fiato alle parole di qualcun altro, e chi recita meccanicamente pensando in ogni istante a ciò che dovrà dire o fare in seguito lo fa in una dimensione stretta: vede uno spartito che non andrebbe visto, e letto, ma “sentito” fino a dimenticarne l’esistenza. Una recitazione di questo genere non darà mai l’impressione di qualcosa che nasce dal cuore o dalle viscere, e che porta, secondo le situazioni, all’allegria o alla commozione, alla serenità o all’inquietudine. Per questo la vera avanguardia è nei sentimenti; per questo – tornando per un momento al film di Giordana – la signora Asti, in alcune sequenze, è il vero effetto speciale de La meglio gioventù.

GB:Saremo forse schiavi dei luoghi comuni sulla fiction, ma dopo averla sentita parlare in questo modo del suo mestiere fa una certa impressione pensarla mentre gira “Incantesimo”...

AB:Proprio per questo ho abbandonato dopo poco più di una stagione, rinunciando ad una sorta di posto fisso che mi aveva garantito, e che con ogni probabilità avrebbe continuato a garantirmi, una popolarità senza precedenti. Il mio personaggio in “Incantesimo” mi piaceva, quindi non è stata una scelta puramente alimentare a farmi accettare il ruolo di Marco Oberon: piuttosto il gusto della sfida con me stesso, la necessità di mettermi alla prova con un’esperienza per me del tutto inedita. La decisione di abbandonare Incantesimo, ed anche il proposito futuro di evitare esperienze dello stesso tipo, non si deve ad un mio snobismo vero o presunto quanto alla raggiunta consapevolezza di non sentirmi adeguato a quella sfida: che costringe necessariamente ad imparare fino a venti pagine di copione ogni giorno, e obbliga a girarne altre venti mandate a memoria la sera prima. Il rischio che si corre, lavorando a ritmi così sostenuti, è proprio che la recitazione lasci il campo al puro esercizio mnemonico, senza nessun’urgenza espressiva: tutto si risolve in un vero e proprio stillicidio, in una catena di montaggio che non permette di tornare su una scena già girata, magari per migliorarla. È un’esperienza che non si addice al mio modo di preparare il personaggio, al mio lavoro sul testo. Dal punto di vista umano, poi, sembra di tornare al servizio militare, pochissimo spazio da dedicare alla vita quotidiana, ancora meno (o nulla) per leggere o andare al cinema.
Tutto ciò non significa che non resti convinto che nelle fiction di questi anni hanno recitato, e recitano tuttora, bravi attori che meriterebbero di essere “scoperti” dall’occhio di un regista preparato, che ne riconosca il talento anche in una miniserie televisiva.

GB:Qualche anno fa il suo curriculum si è arricchito anche di una regia teatrale: di cosa si trattava?

AB:Di quello spettacolo, che s’intitolava Il labirinto d’Orfeo, ho curato la regia insieme con altri colleghi-attori, tra i quali il mio amico Luigi Lo Cascio. Si trattava di un mito itinerante ambientato ad Udine, nelle segrete del Castello dove venti allievi dell’Accademia accoglievano gli spettatori – reduci da uno stage di sensibilizzazione condotto dagli stessi allievi – in alcuni ambienti che favorivano ed offrivano esperienze sensoriali ed intellettuali inedite o insolite: immergersi e “bagnarsi” in una piscina di grano, provare la sensazione “impossibile” della sabbia che ricopre la propria bara, meditare sullo scorrere del tempo attraverso le gocce che nel silenzio circostante cadono sul pavimento di una stanza vuota, assistere ad una proiezione autobiografica del mito d’Euridice. Tutto questo, e molto altro ancora, in un percorso di circa trenta minuti, percorso rigorosamente a piedi scalzi: è stato uno spettacolo di successo, proprio perché stimolava allo stesso tempo il corpo e l’intelligenza.
In futuro non mi sento di escludere altre esperienze di regia, ma in quel caso credo che mi metterei da parte come interprete: ma dirigere è un dispendio d’energia spossante, difficile da sostenere, e in questo periodo della mia carriera sento il mestiere dell’attore è già abbastanza.

GB:Dal suo punto di vista, che è quello di un “osservatore dall’interno” del fenomeno, in che condizioni versa la recitazione nel panorama cinematografico italiano di questi anni?

AB:Mancano la ieraticità e la sacralità con cui dovrebbe essere vissuta: persone che non sanno neppure cosa sia un endecasillabo, o che non hanno mai letto neppure un canto della Divina Commedia, diventano protagoniste di una fiction perché fidanzate con l’uomo di successo o con il calciatore di turno. Ci s’improvvisa attrice ed attore, e questa situazione appiattisce il livello generale, e si ripercuote anche sui professionisti seri, che pure non mancano: con il risultato che bisogna lottare strenuamente per far conoscere – e riconoscere – l’esperienza ed i lavori precedenti.
Per conto mio, posso ritenermi piuttosto fortunato: ho detto qualche no, rifiutato alcune proposte, eppure sono riuscito ad “arrivare”. Conosco molti che purtroppo non possono dire la stessa cosa, e sono attori bravi, alcuni con il mio stesso percorso accademico alle spalle, che non hanno avuto la fortuna d’imbattersi in un personaggio come Matteo Carati o in un regista come Giordana: e per ora continuano a leggere Bulgakov negli istituti per non vedenti.

GB:Rispondendo al giornalista che chiedeva quali fossero gli attori “emergenti” più promettenti del cinema italiano, Ferzan Opzeteck ha fatto il suo nome. Emergente a trentasette anni: è lei che non ha scoperto ancora il cinema, perché impegnato altrove, oppure è il cinema che non l’ha ancora scoperta, perché distratto dai suoi trascorsi?

AB:Mi fa sorridere la parola “emergente”, ma Ferzan – che è un amico, prima ancora che un professionista che stimo profondamente – ha ragione quando riflette sulla mia mancata scoperta del (o “da parte del”) cinema: ma ciascuno ha un proprio percorso, un cammino personale che si ritaglia più o meno consapevolmente. Io per sette anni ho lavorato in teatro, e poi ho fatto un po’ di televisione: finché è arrivato il successo travolgente di Incantesimo che ha catalizzato tutta l’attenzione – nell’immediato ma anche in seguito – su quella sola e singola esperienza. Dal boom d’ascolti e dal successo di quella miniserie è nata la nomea d’attore televisivo.

GB:Si torna alle etichette: e certo, questa non è la più apprezzata, specie dai cineasti di casa nostra...

AB:In questo Paese, e soprattutto in un mestiere come il nostro, è facile – e piuttosto frequente – subire delle etichette da cui è molto arduo liberarsi. Tra le tante che classificano superficialmente un interprete, una delle più difficili da sopportare è quella d’attore (solo) televisivo: perché spesso gli autori neppure vogliono vederlo, prenderlo in considerazione, e figuriamoci se sono disposti a “perdere tempo” valutandolo per quello che è o per ciò che sa fare.
La stretta di mano con i grandi – e non solo in senso metaforico – finisce così per sembrare un miraggio, un traguardo difficile da raggiungere, se non impossibile. In passato questa maniera di classificare un attore in compartimenti-stagni (di cinema o di teatro o di televisione) era meno vincolante: ancora ventenni, Vittorio Gassman e Sophia Loren posavano per i fotoromanzi su “Grand Hotel”, eppure tutti sanno quanto in alto sono arrivati in seguito.
Sono le etichette che hanno danneggiato, e tuttora danneggiano, il cinema italiano: si continua a proporre una divisione gerarchica tra teatro, cinema e televisione, con il risultato – neppure troppo raro – di alzare degli steccati, e di rinchiudere anche alcuni grandi attori in uno solo dei tre “scompartimenti”. Penso a Massimo Populizio, che potrebbe fare qualsiasi cosa e invece continua ad essere considerato troppo “teatrale”; ma anche ad un grandissimo del passato come Salvo Randone, che non ha avuto molte possibilità di esprimersi ad alti livelli nel cinema. Non parliamo poi di chi proviene dalla televisione, spesso escluso a priori dai casting importanti.
In altre parti del mondo, e specie negli Stati Uniti, gli steccati non ci sono, o perlomeno sono assai meno rigidi: altrimenti Robin Williams canterebbe ancora “Nano, Nano!”.
Fino a poco tempo fa era così normale essere considerato solo ed esclusivamente un attore televisivo che avevo smesso di dare peso a queste pregiudiziali: devi far vedere quanto e perché t’interessi a questo mestiere, e far vedere cosa c’è di buono – in termini di sensibilità, esperienza e lavoro – dietro l’aspetto estetico. Non è facile, perché spesso ci si trova di fronte a persone che si fermano soltanto all’apparenza: io ero automaticamente bollato come il modello venuto da Milano per fare “Incantesimo”. Soltanto ora, dopo il successo de La meglio gioventù, inizio a ricevere attestazioni di stima spontanee: ho incontrato Nanni Moretti e Francesco Rosi, entrambi m’hanno detto che “reggo bene lo schermo”; ho letto buone critiche sulla mia prova, e la parola che ricorre più spesso è “sorpresa”. Capisco che sulla carta la scelta di Boni poteva sembrare una bizzarria (magari imposta dall’alto per ragioni d’ascolto), o un autogol di quelli che anche ai grandi può capitare di commettere nel corso della carriera: eppure l’impegno che ho messo in questo film è lo stesso con cui ho interpretato con Anna Negri, Carlo Lizzani, Lino Capolicchio.

GB:A proposito di modelli e d’aspetto estetico, il suo sembrerebbe annunciare ruoli da “eroe romantico”, eppure (o forse proprio per questo) il suo è un curriculum ricco di ruoli negativi, da antieroe: dal Senza paura di qualche stagione fa, sino al recentissimo Vite a perdere, ancora per la televisione, in onda a gennaio su Raidue...

AB:Prendono entrambi le mosse da episodi di malaffare realmente accaduti, e proprio per questo possono sembrare spunti piuttosto simili, pur essendolo soltanto in apparenza. “Senza paura” ripercorre la storia della “banda del taglierino”, che tra il 1991 ed il 1992 mise a segno oltre venti rapine ai danni di piccole e medie filiali di banca della Capitale: con la cattura si scoprì che i membri di quel gruppuscolo di criminali erano “figli di papà” di stimati professionisti e di primari facoltosi, rampolli cresciuti nelle famiglie della Roma bene, nelle belle case dei Parioli; inventarono la rapina con il taglierino per sentirsi più vivi ed adrenalinici, perché avevano provato ogni sport estremo ma quella dose d’emozioni forti non bastava più. Non poteva che finire in tragedia: una guardia giurata, peraltro fuori servizio, sparò ed uccise un ragazzo della banda. Gli altri se la cavarono con sei mesi d’arresti domiciliari, nonostante il tono sprezzante d’alcune dichiarazioni che seguirono l’arresto: “In quei momenti ci sentivamo degli Dei”; il taglierino, però, non era considerato “arma” ai fini dell’imputazione per rapina a mano armata, i ragazzi erano tutti incensurati e...le amicizie influenti e le parcelle a sei zeri versate ai principi del foro fecero il resto, accelerandone la scarcerazione.
Il film è stato l’esordio alla regia di Stefano Calvagna, un giovane attore che ha anche vestito i panni di protagonista in questa vicenda dura e allo stesso tempo molto intensa. Per prepararci ad interpretare i due capibanda, decidemmo di incontrarne uno. Fu un’esperienza forte, che ci costrinse a guardare in faccia una realtà per tanti versi vicina a quella descritta in “Arancia meccanica”: un ricorso alla violenza non solo gratuito e fine a se stesso, ma anche dettato dalla noia e nutrito da un gusto insano per l’esercizio del potere.
È un tipo di violenza ben diverso da quello esercitato da Pino “er fornaro”, il personaggio che interpreto in “Vite a perdere”, il film in due puntate diretto da Paolo Bianchini e liberamente ispirato – negli ambienti e nel retroterra socio-culturale che descrive – al libro di Giovanni Bianconi “Fatti e misfatti della banda della Magliana”: senza con questo voler stilare una “classifica” delle illegalità, che condanni gli uni e attenui le colpe gli altri. Pino è un ragazzo di borgata, alle spalle ha una vita disperata, e nel suo futuro non vede altro che gli stenti di una condizione economica e sociale povera e umile: cerca il riscatto, vuole prendersi la rivincita contro una vita che gli ha negato qualsiasi generosità. La rivalsa per lui si materializza nella conquista di status-symbol tutti esteriori, dalla macchina di grossa cilindrata all’orologio d’oro, dalla moto potente ai vestiti all’ultima moda: e per riuscire ad ottenerli finisce per entrare in brutti giri, per frequentare gli ambienti loschi della mala; eppure sottosotto rimane una vittima, un poveraccio che viene dal cuore del proletariato.

GB:Si scorre la sua filmografia televisiva e ci s’imbatte in alcuni nomi storici del cinema italiano, da Franco Giraldi ad Ugo Gregoretti a Carlo Lizzani: un caso fortuito oppure il risultato di scelte consapevoli e mirate?

AB:In buona parte è stata una scelta, dettata dalla consapevolezza che nell’Italia di oggi la Tv – per un giovane attore, ma anche per uno spettatore – è probabilmente l’unico mezzo per avvicinarsi ai grandi maestri del passato, dai fratelli Taviani a Lizzani, da Gregoretti a Giraldi: gli stessi autori che si dedicarono con successo al cinema mentre, dagli inizi degli anni ’60 e per tutto il decennio successivo, alcuni specialisti del genere firmavano i migliori sceneggiati televisivi. In questi anni – per una nemesi curiosa – la produzione cinematografica non dà loro la possibilità di realizzare progetti ambiziosi, pensati e spesso realizzati in grande, mentre la televisione garantisce un finanziamento adeguato, insieme alla sicurezza che, non essendo l’opera destinata al grande schermo, il peso della “responsabilità” – specie di fronte ai critici, ma non solo – sarà senz’altro minore: pur contando su un bacino di spettatori più vasto di quello garantito dal cinema, la televisione è vissuta paradossalmente come una dimensione più appartata, tranquillizzante, dove l’ansia della perfezione si fa sentire meno, perché si è sicuri che un piccolo difetto è perdonato con maggiore indulgenza.
Tra i nomi che ha citato, è forse a Carlo Lizzani che mi sento più legato: gli devo moltissimo, di lui conservo il ricordo umano e professionale di un vero “signore”. Reduce da L’avaro di Moliére – per la regia di Giorgio Strehler, accanto a Paolo Villaggio – dopo aver sostenuto quattro provini, mi scelse per il suo La donna del treno, un film in due puntate per la televisione. Era il mio primo ruolo da protagonista: Lizzani mi lasciò la libertà di costruire il mio personaggio, e allo stesso tempo m’insegnò l’importanza dei silenzi nel cinema, introducendomi anche al rapporto che deve instaurarsi tra un attore cinematografico e la macchina da presa che lo riprende. Ero un ventinovenne con una certa esperienza teatrale alle spalle, ma di cinema non sapevo granché: fu un’esperienza fondamentale, anche perché ero pienamente cosciente dell’importanza dell’opportunità che mi si presentava. Purtroppo non posso dire lo stesso de Il mago, girato nella pausa estiva tra il secondo ed il terzo anno d’Accademia: ero ancora troppo acerbo perché potessi mettere a frutto l’occasione di vestire i panni di co-protagonista al fianco di un gigante come Anthony Quinn.

GB:Presentando alla stampa il suo esordio alla regia, Eleonora Giorgi ha parlato della solitudine come dimensione costante nella vita di un attore. Condivide?

AB:Condivido, a patto di estendere questa dimensione agli altri ambiti della creatività, e di non farne una prerogativa esclusiva della recitazione. Tutti gli artisti sono soli, e per questo dovrebbero saper convivere con la solitudine; il pittore come lo scrittore, l’attore al pari del musicista: devono sapere che nella solitudine si raccolgono gli stimoli e le suggestioni che permettono di esprimersi al meglio. Chi non sa stare da solo, si trova in serie difficoltà: e per un attore, che è solo nel camerino di un teatro come nel camper che la produzione gli assegna durante le riprese, queste difficoltà scatenano ansie e paure che finiscono inevitabilmente per turbare il necessario equilibrio di cui questo mestiere ha bisogno.
“Ricordati sempre che la cosa più difficile sarà la solitudine con cui dovrai convivere per tutta la vita”: quando un giorno Riccardo Muti mi rivolse questa raccomandazione, sono sicuro che non intendeva mettermi in guardia dalla mancanza degli affetti, anche duraturi e profondi, su cui poter contare nella propria vita; si riferiva piuttosto a quanto può succedere in quei momenti d’intuizione quasi estatica che possono capitare ad un artista, quando anche le persone vicine e innamorate possono non arrivare a capirlo.
A pensarci meglio, se estendiamo il discorso dalla dimensione “artistica” a quella di tutt’altro segno della quotidianità, è quanto accade anche a Matteo: si sente solo nonostante le persone intorno dimostrino il loro amore per lui. È una delle cose più terribili e dolorose che possano capitare nella vita di un uomo.

GB:Siamo giunti al termine, e forse non a caso il discorso cade nuovamente su Matteo Carati, da dove tutto è cominciato: se dovesse tratteggiare brevemente la natura di quel personaggio, quali aggettivi e quali parole userebbe?

AB:Matteo è un disarmonico: la sua sfortuna è che la sua cultura, la sua sensibilità e la sua intelligenza gli permettono di carpire l’armonia che si manifesta attraverso la natura, la musica, la letteratura, l’arte. Vorrebbe essere parte dell’armonia che sente e vede intorno a sé: è un tentativo fallimentare messo in atto, quel che è peggio, da un individuo pienamente consapevole del proprio fallimento.
Il mondo è pieno di disarmonici che non sanno di esserlo, come anche di tirchi che neppure sospettano la propria avarizia: è una condizione non invidiabile, quella di costoro, ma che almeno non produce, a differenza della lucida consapevolezza vissuta da Matteo, dicotomie e lacerazioni nella loro vita e nella loro personalità. Si potrebbe obiettare che vivere una vita inconsapevole significa solo sopravvivere: Matteo è l’emblema della condizione esistenziale diametralmente opposta, quella di un uomo che comprende e vive pienamente la propria condizione, ma proprio per questo non riesce a sopravvivere.
È tutto un mondo, Matteo.
 
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*Ishtar*
view post Posted on 20/11/2005, 00:36




CHE BRIVIDI FARE CIME TEMPESTOSE

di Natalia Vantini

Per Alessio Boni questoè un momento davvero magico. Un periodo di intenso lavoro costellato di bellissimi ruoli. Dopo il tormentato Matteo Carati di "La Meglio Gioventù",fiction diretta da Marco Tullio Giordana che ha conquistato critica e pubblico di tutto il mondo anche al cinema,lo abbiamo visto in tv nei panni di Heathcliff in "Cime Tempestose",dal romanzo di Emily Bronte. Presto sarà di nuovo protagonista di "La Caccia",thriller televisivo in cui interpreta un uomo onesto che si trasforma in assassino. E ancora. Per il grande schermo in "La paura degli angeli",di prossima uscita,lotterà con la moglie Laura Morante per l'affidamento del figlio. A gennauìio lo aspetta il set di Cristina Comencini per "La bestia nel cuore"mentre in questi giorni ,in Puglia,sta girando "Quando sei nato non puoi più nasconderti",film di Marco Tullio Giordana: "E dire che avrei voluto prendermi una pausa di riflessione",confessa,"ma potevo rifiutare di tornare sul set con Giordana? Potevo rifiutare il ruolo di Heathcliff? Vivo un periodo esaltante!"

Heathcliff è un ruolo meraviglioso...
Mi ha dato i brividi e non solo perché abbiamo girato in una località al confine fra la Repubblica Ceca e la Germania,a venti gradi sotto zero... Recitare Heathcliff mette paura, se si pensa che è stato il ruolo di Laurence Olivier nel film del '39 di William Wyler ("La voce nella tempesta" ,ndr). Quello di Emily Bronte è un romanzo dall'atmosfera gotica e dalle potenti emozioni. Difficiissimo rendere l'una e le altre.

Attualmente sta lavorando con Marco Tullio Giordana....
"Quando sei nato non puoi più nasconderti" è un film ispirato a un libro di Maria Pace Ottieri. E' una storia di immigrazione vista con gli occhi di un bambino. Io sono il padre del protagonista.

La vedremo in "La Caccia".
Avrò il ruolo di un uomo per bene. Un borghese colto e educato che,a causa di una tragedia familiare,cade nel baratro e si trasforma in un killer.

Matteo,protagonista di "La Meglio Gioventù" vive un disagio interiore che lo porta al suicidio,in "La Caccia" lei diventa un killer, in "Cime Tempestose" muore d'amore. Quanti ruoli drammatici...
E' vero. E pensare che io al contrario sono un tipo allegro,solare. Di Matteo,mi riconosco nel carattere riservato e introverso. Ma non a quel livello. Ho alle spalle una famiglia splendida,con due fratelli adorabili,ho la fortuna di coltivare la mia grande passione,recitare. Sono una persona serena. presto comunque farò una commedia. Si intitola "Cacao" e la dirigerà Marco Pozzi.

E l'amore come va? E' fidanzato?
Si.

Tutto qui?
Si,tutto qui. La persona che amo non appartiene al mondo dello spettacolo. L'ho detto che sono un tipo riservato.


(Telepiù N° 41 /ottobre 2004)


ALESSIO BONI,L'INTROVERSO

Per cosa ti riconoscono?
Qualche anno fa,quando ero protagonista della fiction tv Incantesimo,per strada mi chiamavano Marco Oberon: era il mio personaggio.Oggi,dopo il successo de La meglio gioventù,tutti mi chiamano Alessio Boni e non Matteo Carati: un bel passo avanti!
Ma,personaggi a parte,credo che il modello di ognuno sia la sua anima.

Prego?
Ciascuno diventa ciò che si sente dentro.Quando ho scelto di girare Incantesimo,per esempio,l'ho fatto per lavorare,ma anche perchè si trattava del ruolo di un medico che aiuta chi soffre,che entra nelle case della gente comune.I buoni sentimenti premiano,se ci credi davvero.

Devi qualcosa a...
Ad Andrea Rallis,un regista cipriota che mi ha aiutato ai tempi dell'Accademia di Arte Drammatica,dove ero in classe con Luigi Lo Cascio e Fabrizio Gifuni.Poi ringrazio Carlo Lizzani,che a 30 anni mi ha permesso di passare dal teatro alla tv con La donna del treno.E naturalmente a Marco Tullio Giordana.

Prossimamente?
Cime tempestose per Raiuno,con Anita Caprioli.Tre mesi di set nella Repubblica Ceca.Vesto i panni di Heathcliff.

Quali sono le persone che in questo momento senti più vicine a te?
Ho pochi amici ma di vecchia data,gente conosciuta nei primi anni romani.E poi i miei tre fratelli.Uno lavora nel mio entourage.

Il tuo attuale stato d'animo?
Sto contemplando la vita e tutte la sue meraviglie.Per natura sono positivo,ottimista.Non è sempre stato facile esserlo:in casa mia non c'erano soldi e per campare ho fatto il pony express,il cameriere e ho dormito anche in macchina.Unica certezza:il lavoro non mi ha mai spaventato.

E gli amori?Mai un gossip sul tuo conto,mai una foto rubata.Eppure sei considerato un sex symbol da uomini e donne.
La maggior parte degli attori chiama i fotografi per farsi immortalare.Io non l'ho mai fatto.E mi mantengo defilato. Non vado più neanche in palestra.Questo per dirti quanto odio la mondanità....

Una tua passione?
I viaggi introspettivi.

Puoi spiegarti meglio?
Mi metto lo zaino in spalla e vado a scoprire culture diverse dalla nostra.Un'altra passione è la moto Enduro. Faccio parte di un club romano e giriamo parecchio.L'ultima volta,nel deserto,non abbiamo
visto una donna per cinque giorni.

Ti sei rifatto al ritorno?
Be',certo.

Il tuo telefonino continua a squillare.Confessa:quanti sms ricevi al giorno?
Moltissimi.Giuro non li ho mai contati. Ma sono uno che risponde sempre. Per me è un fatto di rispetto nei confronti degli altri.

Sogni nel cassetto?
Sono uno con i piedi per terra,sanamente ambizioso,ma senza mai strafare. In fondo,cerco il successo solo perchè mi dà la possibilità di scegliere.Dà una serie di opzioni...

Cuore o ragione?
Sono un istintivo.Sì,ho un notevole lato istintivo che pulsa dentro di me e spesso non mi fa sentire in armonia con le persone che incontro.

Nei film sei un duro:hai mai picchiato qualcuno?
Non meno le mani come nelle fiction.In privato non ho mai fatto a pugni.Ma il concetto di forza,di potenza,mi piace. Ho praticato judo e karate.

I tuoi miti?
Gian Maria Volontè:abbiamo avuto lo stesso maestro di recitazione,Orazio Costa Giovangigli.

Il tuo ideale di donna?
Deve possedere una personalità ben definita.L'aspetto esteriore passa nettamente in secondo piano. Insomma,una ragazza deve riuscire a trasmettermi a pelle ciò che ha dentro.Basta uno sguardo. La mia donna ideale?Audrey Hepburn.Ma anche Anna Magnani.

A chi devi dire grazie?
A mia madre Roberta.Anche lei,da ragazza,recitava.E sono stati importanti i soldi che metteva da parte per i miei studi.Se penso che mio padre mi voleva piastrellista come lui....


(Glamour febbraio 2004)

Edited by *Ishtar* - 20/11/2005, 00:44
 
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*Ishtar*
view post Posted on 22/2/2006, 22:47




26 febbraio 2006

IL CINEMA, LA VITA, L’IMPEGNO: ALESSIO BONI SI RACCONTA

TRA AFRICA E NORDEST



Fa il "cattivo" in un film tratto da un romanzo di Massimo Carlotto: «Sono molto attratto dai personaggi negativi. Ma nella vita...».

di Giulia Cerqueti

L’incontro è fissato all’aeroporto di Linate, prima del suo volo di rientro a Roma. Nel viavai frenetico dei viaggiatori, lui si fa largo salutando da lontano, occhiali scuri, barba lunga e un sorriso limpido che gli illumina il volto. «Scusami tanto per il ritardo», esordisce con un po’ di apprensione. Il ritardo, in realtà, è solo di cinque, accademici, minuti. Ma le sue scuse non sono formalità. «Se c’è qualcosa in cui sono rimasto molto bergamasco», spiega, «è proprio la serietà, la precisione. Non prendo mai sottogamba un appuntamento. Ho un grande rispetto per il lavoro mio e degli altri. In tutto quello che faccio metto lo stesso impegno».

Questo è Alessio Boni, rigoroso e professionale, gentilissimo, però mai sopra le righe. A quasi quarant’anni (li compirà il 4 luglio) Boni è uno dei protagonisti più convincenti dell’attuale panorama di attori italiani. Una schiera di bravi professionisti in cui, fra gli altri, si distingue Luigi Lo Cascio, grande amico di Boni nella vita, suo compagno di set in La meglio gioventù di Giordana e La bestia nel cuore di Cristina Comencini, il film italiano candidato all’Oscar. «Questa candidatura», dice Boni, «è un’iniezione di fiducia nei confronti del cinema italiano, tanto maltrattato, privo di fondi, quasi ignorato. L’Italia pura – perché La bestia nel cuore è tutto e solo italiano – ha avuto la meglio. Questo significa che qualità e possibilità ci sono. Bisogna cambiare le regole distributive e crederci di più».

Una storia italiana

Ora, sul set cinematografico Alessio Boni veste i panni di Giorgio, l’inquietante protagonista di Arrivederci amore, ciao, il nuovo film di Michele Soavi – sul grande schermo dal 24 febbraio – tratto dall’omonimo romanzo di Massimo Carlotto: una denuncia aspra e impietosa del marcio che serpeggia in una certa realtà sociale del Nord-est italiano.

Il film – che accanto a Boni vede in scena Michele Placido e Isabella Ferrari – è forte, crudo, a tratti molto violento, una storia difficile, priva di qualsiasi apertura alla speranza, al cambiamento, a una possibilità di redenzione. Un film duro e una scelta, per Boni, meditata a lungo («Ho impiegato tre mesi prima di dire di sì a Soavi») perché, come l’attore stesso ammette, «quando entri in un personaggio sbagliato sono tutti pronti a darti subito addosso».

«Il film», racconta, «è uno spaccato di un essere umano ritratto in un certo periodo della sua vita all’interno di un contesto sociale che tuttora ci appartiene. È un film prettamente italiano». Poi prosegue: «Giorgio, il protagonista, è un ex terrorista e guerrigliero. Insegue un alto ideale rivoluzionario che a un certo punto gli crolla addosso. Uccide il suo migliore amico e dal Sudamerica, dove è fuggito dopo aver compiuto un delitto in Italia, torna a casa per ricominciare una vita».

Alla ricerca delle emozioni

Ma il caso vuole che incappi in vari personaggi corrotti che lo riportano sulla strada della criminalità. «Giorgio è il prodotto di una certa realtà sociale. Ma nessuno, certo, vuole farlo passare per un santo. Lui, di suo, è attratto dalla criminalità, è corrotto, malvagio, debole. Ed è anche questo aspetto che mi ha affascinato di lui. È facile interpretare personaggi buoni, positivi. Per me è molto più interessante entrare dentro una personalità così diversa dalla mia e alla quale io, nella mia vita di sempre, non assomiglierò mai».

È un fiume in piena di racconti e riflessioni, Alessio Boni. Parla del suo personaggio scandagliandone la mentalità e i risvolti psicologici, scavando in profondità dentro la sua anima. «È questo il bello del mio lavoro. Andare a fondo, ricercare le emozioni ordinarie e straordinarie». Non a caso, se non avesse fatto l’attore, Alessio avrebbe voluto fare lo psicologo. «Sul set, più conosci, più ricerchi, e più ti abbandoni nell’interpretazione. Meno sai, più arranchi in una recitazione stentata. Bisogna studiare il personaggio, leggere ciò che lui avrebbe letto per costruirsi quel bagaglio di conoscenze che poi permette di restituirlo al pubblico con sicurezza e padronanza».

Di fatica intellettuale, di letture Alessio ne ha dovute fare davvero tante, per tenere il passo con l’Accademia d’arte drammatica, per formarsi una cultura teatrale, lui che, nella sua provincia bergamasca che gli stava stretta, aiutava il padre piastrellista mentre studiava ragioneria, lui che, non avendo una formazione classica, all’Accademia partiva svantaggiato e doveva faticare il doppio rispetto agli altri studenti, come lo stesso Luigi Lo Cascio, uscito dal liceo.

«Quando ho cominciato la carriera teatrale, ho vissuto una grande solitudine che deve esserci, perché è un momento essenziale per l’attore: solo così puoi scoprire l’intimità del rapporto con il pubblico, che è un dialogo personale fra chi sta sul palcoscenico e lo spettatore».

Oggi, aldilà del cinema, Alessio Boni si è buttato anima e corpo in un nuovo impegno: quello umanitario, come ambasciatore di buona volontà dell’Unicef, per la campagna contro la pandemia dell’Aids nel continente africano. Di recente questo impegno lo ha portato per dodici giorni in Malawi e Mozambico. «Sono andato per capire cosa si può davvero fare. E sono arrivato alla conclusione che per migliorare le cose bisogna pensare di poterle migliorare».

La luce alla fine del tunnel c’è. Non possiamo voltare la faccia di fronte alla tragedia dell’Africa. «Un giorno ho chiesto a un bambino di otto anni cosa desiderava per essere felice. Mi aspettavo che mi dicesse un giocattolo, una macchinina, ma lui mi ha risposto: "un panino quando ho fame". Mi sono sentito spiazzato, sconvolto in tutti i miei parametri, le mie certezze. Io non ho dato niente a quelle persone, ma loro mi hanno arricchito. E ora devo fare il possibile per ricambiare la ricchezza ricevuta».

da famiglia.cristiana

Edited by *Ishtar* - 22/2/2006, 22:48
 
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*Ishtar*
view post Posted on 9/3/2006, 20:57




13 gennaio 2005

Un attore con la bestia nel cuore

di Katiusha Salerno

L'errore giudiziario, l'inganno, la sofferenza umana. Sono questi i temi della nuova fiction La caccia in onda su RaiUno in prima serata domenica 16 e lunedì 17 gennaio prossimi. Protagonisti Claudio Amendola, Simona Cavallari, in gran forma dopo due anni di pausa lavorativa dedicati a fare la mamma, e Alessio Boni di nuovo alle prese con una fiction dopo i successi ottenuti in Incantesimo e La meglio gioventù.
Prodotta da Rai Fiction e da Francesco e Federico Scardamaglia per la Compagnia Leone Cinematografica, La caccia, racconta la storia di Lorenzo (Alessio Boni), un gioielliere romano a cui vengono uccisi la moglie incinta e il figlio di otto anni da un rapinatore che gli svuota anche la cassaforte. Accusato della rapina e del duplice omicidio è Pietro (Claudio Amendola), un ex pregiudicato che da un anno ha scelto di vivere una vita onesta facendo il meccanico. Alla notizia dell'imminente arresto Pietro, che ha paura di tornare in carcere, questa volta ingiustamente, scappa per raggiungere il suo vecchio amore Aurora (Simona Cavallari) sperando che l'aiuti. Lorenzo si mette sulle sue tracce intenzionato a farsi giustizia da solo.

Temi forti, di stretta attualità. Si rende conto Alessio Boni che molti telespettatori s'immedesimeranno nel suo personaggio?
Sì, purtroppo. A essere sincero se una cosa del genere mi dovesse succedere nella vita non so come mi comporterei. La razionalità ci dice di credere nello Stato ma istintivamente la voglia di farsi giustizia da solo è forte.
Lorenzo, il mio personaggio, parte con un istinto di vendetta ma poi per fortuna durante la sua caccia ha il tempo di capire, di sapere, conoscere i motivi di quella maledetta rapina alla sua gioielleria. Il messaggio finale è quello della razionalità che deve vincere sull'istinto. E' per questo l'Italia non avalla la pena di morte.


Che rapporti ha avuto sul set con Claudio Amendola, un attore così diverso da lei per percorso formativo e carattere?
Ottimi anche se abbiamo girato solo quattro scene insieme. Il nome di Claudio Amedola echeggia nel mondo del cinema e della televisione da vent'anni, eppure quando si lavorava non smetteva mai di mettere in discussione il suo modo di recitare.


"La caccia" sembra somigliare molto a "Il fuggitivo" con Harrison Ford, solo che il suo personaggio appare qui sdoppiato. Vuol dire che ci vogliono due attori italiani per fare un Harrison Ford?
Curiosa come interpretazione. Fosse così facile! Però c'è una differenza fondamentale. Ford in quel film era un poliziotto, io e Claudio ne La caccia siamo persone comuni. Siamo molto meno super eroi e più umani. E in questo sta la nostra forza.


Come sceglie i personaggi da interpretare?
Con il solito mezzo: la pancia. I personaggi devo sentirli dentro. Poi se il pubblico li vedrà sul piccolo o sul grande schermo ormai ha poca importanza. E' la qualità dei progetti a fare la differenza. Quello di Lorenzo Freddi è un personaggio che ho amato subito. Non è ben delineato. E' un uomo forte ma con mille debolezze, è deciso e istintivo, ma strada facendo si ferma a riflettere.


Le piace la televisione in questo periodo?
Cosa vuol farmi dire? Se mi piacciono i reality show? No, non mi piacciono e non li guardo. Ma la televisione non è solo reality show. E' fiction di ottima qualità, è informazione. E qualche varietà è anche divertente.


E il cinema? Che progetti ci sono nel suo imminente futuro?
A marzo uscirà il film che ho girato l'anno scorso con Marco Tullio Giordana, Quando sei nato non puoi più nasconderti. La prossima settimana invece vado sul set del nuovo film di Cristina Comencini, La bestia nel cuore. Lì ritroverò Luigi Lo Cascio. Con Giovanna Mezzogiorno siamo una coppia di attori alle prese con i problemi del mondo dello spettacolo. Entrambi si dividono, come me, tra cinema e fiction.
Poi, in giugno, comincio le riprese di un film di Michele Soavi tratto da un romanzo di Massimo Carlotto. Sono un ex guerrigliero che torna in Italia per riavere il codice fiscale e ricominciare una vita normale.

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da news.cinecitta.com

Edited by *Ishtar* - 9/3/2006, 21:12
 
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*Ishtar*
view post Posted on 10/3/2006, 14:06




Questa invece è un'intervista audio e video dal making of di La bestia nel cuore:

www.cineuropa.org




E questa è la trascrizione dell'intervista:

Sotto certi punti di vista Franco è un attore integerrimo. Per lui il teatro è importante: ha fatto l’accademia, che ovviamente è una scuola importante. Per lui il teatro ha un valore, la parola ha un senso perché è portatrice di cultura, al massimo si può fare un cinema di alta qualità, con autori e basta. Mentre Sabina (che è interpretata da Giovanna Mezzogiorno), la mia ragazza, anche lei attrice, è un po’ più blanda, nel senso che è un po’ più morbida, infatti è doppiatrice, andrà in una sala di doppiaggio, però sarà quella che lavorerà sempre nella coppia, quella che porta i soldi a casa, quella che paga l’affitto, quella che paga le bollette.
L’inizio di questo film è un momento particolare: Franco è frustrato, perché in due anni ha fatto delle piccole apparizioni in teatri-off e non riesce ad essere indipendente né economicamente e nemmeno con il lavoro che ama fare. Quindi dopo l’incontro con un regista, che è Andrea Negri (interpretato da Giuseppe Battiston), decide di provare una nuova avventura e tornerà alla giovialità; perché il lavoro ti riabilita, ti fa sentire di nuovo vivo. Paradossalmente, una cosa che Franco non avrebbe mai preso in considerazione due anni prima, è quella che lo salva e lo tira fuori dal baratro della depressione, del malessere. Gli ritorna il buon umore, mentre prima era ombroso, scontroso, anche con Sabina. Il lavoro lo porta ad essere di nuovo sereno e tranquillo, anche con la coppia.
 
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*Ishtar*
view post Posted on 11/3/2006, 01:10




10 marzo 2006

Boni, un nuovo divo

Con "La bestia nel cuore" e "Arrivederci Amore ciao" ha dimostrato di poter diventare la nuova star del cinema italiano

di Alice Voltolina


Lo abbiamo notato e apprezzato al fianco del bravo Lo Cascio ne La meglio gioventù di Marco Tullio Giordna, in cui interpretava il ruolo del fratello arrabbiato e deluso (ma i suoi primi lavori risalgono al '90, ancor prima del diploma presso l'Accademia d'arte Drammatica). In soli due anni, tra il 2004 e il 2005, gira 6 film (di cui uno candidato all'Oscar, La bestia nel cuore, e uno ancora non uscito nelle sale, Viaggio Segreto) e un film per la tv (Cime tempestose), e ottiene diversi, importanti riconoscimenti.

La notizia che presto lo avremmo visto indossare i panni di Caravaggio (in una fiction tv e una riduzione per il grande schermo) guidato da Angelo Longoni ha trovato il suo pubblico entusiasta e i critici curiosi di vederlo all'opera nel ruolo che quarant'anni fa fu Gian Maria Volontè.

Nel frattempo (le riprese dovrebbero iniziare proprio questo mese e lo impegneranno fino a luglio) Alessio si dà alla promozione dei suoi ultimi lavori. E alla presentazione de Arrivederci amore, ciao, è estremamente gentile con tutti. Sorride, risponde alle domande, scherza e parla con estremo piacere di questo film duro e inconsueto (per il cinema e per il pubblico italiano). Un noir mediterraneo firmato da Michele Soavi (DellaMorte, DellAmore, Uno Bianca, Ultimo 2-La sfida...) e tratto dal romanzo di Massimo Carlotto, che parla di realtà, quella vera, quella che è forse difficile guardare con gli occhi. Un film che è come un pugno nello stomaco, di quelli che ti entrano in testa e che non è facile da lasciarsi scivolare via.

Lui, bello e affascinante come sempre, è al centro dell'attenzione della piccola ma interessatissima platea, e non si risparmia neanche un attimo, fino alla fine: firma autografi, si lascia fotografare, accetta complimenti, regala baci e saluta e chiacchiera con chi lo segue da tempo in questi suoi appuntamenti aperti al pubblico.

Ma tu sei così gentile con tutti?
Loro sono il mio pubblico. Sono loro che poi vengono a vedere i miei film.

È vero che rispondi personalmente a tutte le mail che ti scrivono?
Certo, magari ci metto un po' di tempo, ma do a chi mi scrive ogni attenzione.

Non ti pesa l'essere famoso? Perché sai in tanti si lamentano del fatto che non esiste più privacy, più tempo per se stessi...
In realtà devo dire che ho una gran fortuna: non mi riconoscono molto per strada. Devo avere un viso molto comune, poi mi nascondo dietro a un paio di occhiali scuri ed è fatta. Magari poi ci sono quelli che non vengono da me perché cercano di rispettare la mia privacy. Comunque bisogna anche dire che io non sono il tipo che piace alle ragazzine, quelle che ti si buttano addosso.

Non ti stancano gli impegni mondani?
Credo che se uno non ha voglia di farsi sconvolgere la vita non se la lascia sconvolgere. Io non amo queste serate di mondanità. Infatti non vado quasi mai in tv e accetto solo quello che mi interessa veramente e che mi va di fare. Se non mi va, me ne sto a casa. Ma se esco, bhè allora devo essere ben presente, non posso farmi vedere stanco, anche se magari lo sono, perché altrimenti facevo meglio a starmene a casa. Voglio vivere bene ogni minuto.

Parliamo di cinema. Questo sembra essere il momento degli antieroi (Mach Point, Cacciatore di teste, Munich, History of violence) e anche Giorgio di Arrivederci Amore, ciao è così: un personaggio totalmente negativo...
Sì, lui negli anni della lotta armata si è reso involontariamente colpevole della morte di un metronotte e quindi fugge in Sud America per evitare la condanna e il carcere. Poi però dopo 5 anni di latitanza decide di rientrare e per farlo prima va da un ex-compagno del gruppo della lotta armata e chiede aiuto per poter tornare a essere un uomo con una vita normale. Tutto ha inizio così e il resto del film racconta il suo viaggio nei gironi danteschi per poter realizzare il suo desiderio. E alla fine dentro è un verme più di prima.

Cosa ti ha spinto ad accettare di interpretare un personaggio così poco amabile come quello di Giorgio?
Ho avuto sicuramente molta difficoltà a sviscerare il libro. Giorgio è un personaggio crudele, che quasi mi ripugnava all'inizio. Io scelgo i personaggi che mi colpiscono, che mi suscitano un'emozione, e in genere sono personaggi che mi piacciono, che mi intrigano. In questo caso invece c'era una forte dicotomia tra le sensazioni che mi suscitava il personaggio e tutto il resto, tutto il contorno. Allora ho deciso di leggere tutto il libro di Carlotto e mi capitava di leggerne un po' poi di dire basta. Poi ancora di riprenderlo in mano andare avanti e poi ancora abbandonarlo. Ho letto e riletto il libro di Carlotto. In genere per me è o bianco o nero, o sì o no. Ma questa volta c'era un ni che non riuscivo a sviscerare. Poi ho conosciuto Conchita (Airoldi, la produttrice ndr) e mi sono lasciato prendere dal progetto.

E come sei riuscito a entrare nella parte?
Una volta che hai colto il personaggio ti devi infilare dentro come un coltello rovente in un panetto di burro, ti devi buttare a capofitto andando fino in fondo, senza perdere un attimo di attenzione, perché altrimenti il personaggio lo perdi. Comunque è estremamente stimolante per un attore fare un personaggio cattivo, negativo, completamente differente da te perché ti dà la possibilità di fare cose che non faresti mai.

Bilancio dell'esperienza?
Devo dire che alla fine mi sono diverto molto nel girare il film, prima di tutto perché in Italia sono molto rari i film d'azione e poi comunque devi riuscire a crederci fino in fondo nel tuo personaggio, per poter fare la carogna fino in fondo. Quando l'ho visto la prima volta sullo schermo, perché un conto è girare le scene un contro seguire la post produzione e vedere il film finito, è stato davvero un pugno nello stomaco, ma sono contento perché c'è l'esatta percezione di questa realtà nera che è il film.

È vero che prima di te altri attori, sia in Italia sia in Francia, hanno rifiutato la parte?
Sì, la parte era stata proposta anche ad altri e tutti hanno rifiutato perché il personaggio è un uomo crudele, falso, bugiardo e non a tutto piace essere identificati con un individuo così negativo. Ma questa sua non onestà nasce dal fatto che ormai vive nella disillusione che per potersi realizzare basta seguire i propri ideali. Il suo è un excursus pazzesco perché per poter tornare a essere un uomo normale, un uomo come tutti, di quelli che possono uscire e andare a prendere il cappuccino sotto casa deve in realtà diventare un uomo spietato.

Lavori sia nel cinema che per le fiction, sono due mondi completamente differenti...
Sì, una differenza sostanziale perché le fiction sono una vera e propria catena di montaggio e magari ti trovi a dover girare due puntate in 15 giorni quindi hai la possibilità di girare quella scena e il primo ciak che viene bene è quello, non hai la possibilità di rifare. Invece nel cinema non è così.

Una differenza tra tv e altre dimensioni artistiche, quindi?
La tv ti mostra tutto con una patina esterna che non ti fa vedere quello che c'è dietro la maschera. Invece questo film, per esempio, è diverso: ti fa vedere l'altra faccia, qualcosa che comunque fa parte della società italiana, è uno spaccato della "peggio gioventù". Quelli che negli anni '70 hanno fatto un'altra scelta e hanno sposato l'ideale della lotta armata. E dei quali Carlotto fa un efficace ritratto: il ritratto del lato peggiore della sua generazione. E infatti ci sono state diverse difficoltà per trovare i fondi per produrre questo film.

Quando iniziano le riprese del tuo prossimo film, in cui interpreti il ruolo che già fu di Volontè?
A marzo 2006, ma (sorride e scherza), dammi tempo di riprendermi un attimo. Ho appena finito di lavorare a Viaggio segreto (nelle sale dal 31 marzo, ndr) di Roberto Andò, con Claudia Gerini e Kusturica e devo avere un minimo di tempo per entrare nel personaggio di Caravaggio, che è comunque un ruolo molto impegnativo.


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da magazine.libero.it

 
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PESCIO
view post Posted on 11/3/2006, 12:38




Che uomo adorabile!!!! cry.gif cry.gif
 
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*Ishtar*
view post Posted on 28/9/2006, 14:28




Marzo 2006
La redazione de Il Cibicida è orgogliosa di presentarvi la versione integrale dell’intervista rilasciataci da uno degli attori più dotati dell’attuale scena cinematografica italiana: Alessio Boni. L’artista ripercorre con noi le fasi salienti della sua carriera, dalla recente collaborazione con il regista Michele Soavi all’indimenticabile interpretazione nel capolavoro diretto da Marco Tullio Giordana “La meglio gioventù”. Buona lettura…

L'INTERVISTA DE IL CIBICIDA

A cura di Vittorio Bertone


Parliamo un po’ di “Arrivederci amore, ciao”: avevi già letto il romanzo di Massimo Carlotto? E a tal proposito, per un attore è più difficile partire da un personaggio che “è” già (scusa lo slancio filosofico) rispetto ad uno che ha una fase embrionale all’interno della sceneggiatura stessa?
Non conoscevo quel romanzo di Carlotto ma altri. Letta la sceneggiatura, quel personaggio (Giorgio Pellegrini), mi ripugnava e mi attraeva allo stesso tempo, allora ho parlato con Soavi e sistemandola un po’ siamo partiti buttandoci insieme a capofitto. Poi tutti i personaggi sono difficili e più elementi hai a disposizione e meglio è. A mio avviso in una buona sceneggiatura c’è già tutto, devi solo cercare ed estrapolare, se quindi in più hai la possibilità di leggere anche il libro da cui è tratta, possiedi elementi in più per poterti mettere a nudo davanti a un personaggio; poi le modifiche mentre lavori le apporti in ogni caso, quindi sulla carta è sempre un po’ un embrione che si forgerà su celluloide.

Il regista del film è Michele Soavi, che la redazione de Il Cibicida ama particolarmente, com’è stato lavorare con lui? Aggiungo: quale dei suoi film preferisci di più?
Michele Soavi è la macchina da presa in carne ed ossa con una ossessione nei confronti del progetto che vuole realizzare, lo adora come se fosse suo figlio e quindi la mattina arriva sul set con la necessità e l'urgenza di fare certi spostamenti con la macchina perché non può fare altrimenti, questo non è tecnicismo fine a se stesso ma talento.

Nel cast di “Arrivederci amore, ciao” c’è anche Michele Placido… ritieni che il suo “Romanzo Criminale” sia l’other side dell’Italia raccontata ne “La meglio gioventù”, cosi come Giorgio è la nemesi di Matteo?
"Romanzo criminale" è un bel film punto. Non voleva essere l'altra faccia de "La meglio gioventù"era tempo che si voleva fare un film sulla banda della Magliana e Placido lo ha realizzato in modo notevole. Per quanto mi riguarda invece essendo attore, cerchi sempre di fare ruoli diversi anche per scandagliare di più la materia umana e se Matteo faceva parte de "La meglio gioventù" Giorgio fa parte de "La peggio gioventù" su questo non ci piove.

Abbiamo parlato de “La meglio gioventù”, prima di chiederti di Giordana e Lo Cascio, permettimi di ringraziarti per la tua straordinaria interpretazione, che definirei sublime. Tornando al tuo personaggio, Matteo, ritieni che il suo gesto estremo sia la metafora di una ideologia, o se preferisci, di un senso culturale che non sa sopravvivere al futuro?
Matteo possedeva un enorme mal di vivere, estremamente intelligente e sensibile circondato da una società che non lo appagava, il perché del suo gesto estremo lo sa solo lui e credo sia giusto così..

Marco Tullio Giordana e Luigi Lo Cascio, un regista e un attore con il quale hai lavorato più volte. Puoi parlarci un po’ di loro?
Gigi lo conosco dai tempi dell'Accademia, persona colta, curiosa, finemente intelligente, talentata e che si è costruito un percorso completamente da solo (ne sono testimone); Marco Tullio Giordana gran signore coraggioso e generoso, il pubblico è la sua linfa e quindi la sua molla, il suo stimolo, pensa in continuazione a come potrebbe recepire il messaggio la persona che va al cinema e lo trasmette anche a te sul set, è un fine conoscitore del mezzo tecnico e sa tutto... devi solo imparare e ascoltare da un regista così...

Altro capitolo importante della tua carriera: “La bestia nel cuore”… hai avuto modo di sentire Cristina Comencini dopo la serata degli Oscar?
Cristina Comencini non sono ancora riuscito a sentirla perché è tornata e si è fiondata in teatro con le prove quindi... l'ho sentita prima e proprio del film Sud Africano aveva paura mi disse, perché era bellissimo... e infatti.

Tu hai partecipato anche a delle produzione per la televisione. A tuo avviso, in Italia, il serial è in se un po’ troppo standardizzato… un “Lost” o un “Desperate Housewives” tanto per fare qualche nome, da noi sono irrealizzabili per una questione di budget o per una questione di mentalità del pubblico della serie “da una produzione italiana voglio questo, una storia d’amore, tradimenti, ritorni e ….” ?
In Italia il problema è il mix della tua domanda, un po’ il budget e un po’ che secondo i vari palinsesti il pubblico non è pronto a certa televisione; a mio avviso il pubblico ha più antenne di quanto noi pensiamo.

Alessio quali sono i tuoi progetti futuri?
Sto cercando di immergermi in Michelangelo Merisi da Caravaggio, inizierò le riprese ad Aprile e saranno due puntate per Rai 1 con la regia di Angelo Longoni.

Il nostro sito si occupa anche di musica e noi siamo curiosi di sapere quali sono i tuoi ascolti del momento…
La classica non la perdo mai, si parte sempre da essa, e poi dipende dagli stati d'animo, dal Jazz alla musica italiana fino a ritornare alle mitiche band degli anni 70... una ragazza mi ha colpito ultimamente Dolcenera.

Ultima domanda di rito, se ti dico Cibicida tu a che cosa pensi?
Un insetticida

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da www.ilcibicida.com
 
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*Ishtar*
view post Posted on 22/11/2006, 16:12




26/04/2006 - La Stampa

Alessio Boni è Caravaggio

«Quante coincidenze tra la sua vita e la mia
Ma lui è un’icona»


ROMA
Alessio Boni ha cominciato a prepararsi al ruolo di Caravaggio all’inizio dell’anno, con una immedesimazione e una felicità inconsuete.
«E’ un’occasione che capita una volta nella vita poter raccontare la vita di un genio».
Lodatissimo protagonista di «Arrivederci amore, ciao», un noir di Soavi che ha permesso a Caterina Caselli di vincere l’Oscar per la miglior canzone da film, lanciato in televisione dalla lunga serie di «Incantesimo», ma diventato un idolo per il pubblico femminile grazie a «Cime tempestose», Alessio Boni di Caravaggio sa tutto perché, come dice lui che è nato a Sarnico vicino Bergamo:
«Per orgoglio campanilistico noi di quelle parti ci vantiamo di aver dato i natali a tre grandi: Donizetti, papa Giovanni e soprattutto Caravaggio».
Quindi non ha dovuto documentarsi sulla vita del pittore.
«No. Biografie su di lui ne avevo già lette e conoscevo bene la sua opera perché ero andato a vederla nelle chiese e nei musei. Ma mi ha colpito, studiandola, le affinità curiose che ci sono tra me e lui. Io son venuto a Roma da Bergamo dove facevo il piastrellista a 21 anni, animato dal folle desiderio di diventare attore, dopo aver visto “La gatta Cenerentola”. Lui è arrivato a Roma a 21 anni perché voleva dipingere la realtà che aveva davanti, ma alla sua maniera, rifiutando ogni convenzione dell’epoca. Tutti e due eravamo poverissimi e tutti e due abbiamo avuto successo a Roma. Lui aveva un fratello sacerdote e anch’io ne ho uno. Lui è stato aiutato dal banchiere Orazio Costa, io ho avuto come maestro di recitazione Orazio Costa. Caravaggio ha avuto i primi grandi guadagni il 4 luglio del 1600 dipingendo due opere per San Luigi dei Francesi ed io sono nato proprio il 4 luglio. Lui è morto a 39 anni e io adesso ho 39 anni. Basta?».
Queste, però, sono coincidenze. C’è anche qualcosa nel suo carattere che le sembra somigli a quello di Caravaggio?
«La testardaggine. La determinazione. La forza d’animo. Ma queste sono cose comuni a noi di quelle parti. C’era l’Inquisizione, allora. Cadevano le teste per un errore qualunque. Eppure Caravaggio per dipingere la morte della Madonna prese una donna affogata nel Tevere, metteva i piedi nudi dei santi in primo piano, cercava le sue modelle tra le prostitute, scavava i volti, ci metteva le rughe, i porri, le occhiaie. E non si tirava indietro davanti a niente».
Caravaggio era un uomo facile alla rissa: lo è anche lei?
«Per carità. Mica voglio paragonarmi a lui. Lui era un genio. Io no. Ma non sopporto quelli che lo descrivono solo come un assassino e un omosessuale. C’è ben altro, in Caravaggio! Era un intellettuale, un pensatore, uno che concepiva i suoi quadri in testa prima che sulla tela, come fotogrammi di una pellicola, attimi sospesi tra un’azione e l’altra. Certo era violento, facile all’ira, mai legato a una donna, intollerante, ma i suoi cesti di frutta sembrano uscire dalla cornice e cadere a terra».
E’ completamente schierato dalla sua parte.
«Completamente. Anche perché mi hanno spiegato che dipingere come faceva Caravaggio, usando molto bianco di piombo, cosa oggi proibita, poteva provocare, come fosse un veleno, una sorta di alterazione psichica. E poi chi dipinge con forza e concentrazione, mi hanno detto, quando smette è in preda a un’arsura insaziabile: e lui giù, beveva litri e litri di vino per placare la sete».
Fisicamente, comunque, siete distanti: lui era scuro, con riccioli bruni, lei è castano con occhi chiarissimi.
«Ah, no! Nel film cercherò di somigliargli il più possibile. Da tre mesi mi sto facendo crescere la barba col pizzetto, i miei capelli saranno scuriti e porterò le lentine per cancellare l’azzurro degli occhi. Non voglio diventare il suo sosia, ma Dio mio, l’abbiamo avuto sotto gli occhi Caravaggio per anni sulle banconote da 100 mila lire, mica posso presentarmi con la mia faccia! Sarebbe stato blasfemo. Caravaggio è una icona. Le icone vanno rispettate».

da www.cinemagay.it
 
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*Ishtar*
view post Posted on 22/1/2007, 15:25




20 gennaio 2007

IL MIO CARAVAGGIO FRA LUCI ED OMBRE


ROMA - ''Grazie a Vittorio Storaro, che ha curato la fotografia, il mio sara' un Caravaggio fra luci ed ombre" : Alessio Boni, fra gli spettatori ieri sera alla casa del Cinema di '100 minuti corti', rassegna itinerante dedicata al cinema breve, esordisce con una battuta parlando della miniserie in due puntate dedicata al grande pittore, di cui è protagonista, in onda nella prossima stagione televisiva su Raiuno. 'Caravaggio', diretta da Angelo Longoni, su una sceneggiatura di Andrea Purgatori e Jim Carrington, è stata realizzata dalla Titania di Ida Di Benedetto insieme a Rai Fiction, e in coproduzione con Francia, Spagna e Germania. Nel cast della fiction (di cui era stata annunciata anche una versione ridotta per il grande schermo) oltre a Boni, ci sono circa 90 attori europei, fra i quali Elena Sofia Ricci, Jordi Mollà, Claire Keim, Paolo Briguglia e Sara Felberbaum.

"Restando molto vicini alla biografia, abbiamo cercato di rendere tutte le sfumature del personaggio" aggiunge l'attore "come il talento, il coraggio, la violenza, la passione, le circostanze della morte e abbiamo sfiorato anche il tema della sua omosessualità". Cosa pensa di aver portato di suo al ruolo? "La mia bergamaschità'' risponde, sorridendo ''come lui anch'io sono di Bergamo, e ci uniscono anche altre coincidenze. Entrambi ci siamo trasferiti a Roma a 21 anni; lui è morto a 39 anni e io ho girato la fiction alla stessa età; lui aveva un fratello prete e ce l'ho anch'io. Speriamo, tutti noi che ci abbiamo lavorato, di essere riusciti ad evocare la grandezza del personaggio". Boni è molto soddisfatto anche di 'Guerra e pace' la miniserie in 4 puntate, sempre per la prossima stagione di Raiuno, diretta da Robert Dornhelm, finita di girare da poche settimane.

Tratta dal capolavoro di Tolstoj, la fiction ha visto uniti nello sforzo produttivo insieme a Lux e Rai Fiction, Russia, Germania, Francia, Polonia e Spagna per un costo complessivo di circa 26 milioni di euro. Per l'attore "é stata un'esperienza incredibile, anche per il cast con attori di nove Paesi, da Brenda Blethyn, a Malcolm McDowell", e fra gli altri, anche Alexander Beyer, Clemence Poesy, Valentina Cervi, Andrea Giordana, Violante Placido. "Io interpreto il principe Andrej Bolkonskij, un uomo di altissimi valori morali, leale, che tiene sempre fede alla propria parola, di rettitudine assoluta". Secondo Boni, che si é preparato alla parte rileggendo più volte il romanzo e vedendo film e sceneggiati che ne sono stati tratti "un personaggio come Bolkonskij resta molto attuale, perché racchiude il senso del bene che c'é in ognuno di noi, ma che oggi perdiamo nel vortice di una società stravolta dal consumismo e dal denaro". E per il prossimo futuro? "Sto leggendo copioni, vorrei tornare al cinema e a teatro'' dice l'interprete di La meglio gioventù-. ''Ma per ora ho bisogno soprattutto di riposarmi, dopo nove mesi lontano da casa".


da www.ansa.it
 
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*Ishtar*
view post Posted on 27/7/2007, 14:06




Alessio Boni: "Vi racconto il mio Guerra e pace"

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Alessio Boni è stato uno dei protagonisti della prima edizione del RomaFictionFest. Era presente con due prodotti di livello internazionale. Caravaggio, acquistato dalla Fox verrà distribuito in America in formato theatrical. Guerra e Pace, mega produzione europea ripropone il classico di Lev Tolstoj a cinquant'anni dal film di Cukor. Quasi sette ore di proiezione. Boni presta voce e corpo a Caravaggio e al Principe Andrei Bolkonsky. Entrambe le fiction le vedremo in autunno su Raiuno. Un attore lanciato dalla televisione (Incantesimo, La meglio gioventù) con qualche insediamente al cinema (Arrivederci amore ciao, La bestia nel cuore) che però non dimentica mai la sua scuola di formazione, il teatro e la radio.
Come le è stata proposta la parte in Guerra e pace?
"Mi ha chiamato Ettore Bernabei, l'idea di portare in scena un personaggio così celebre mi faceva tremare i polsi. Ho impiegato qualche mese per dare la risposta. Poi ho incontrato il regista Robert Dornhelm, una persona speciale che ama la letteratura russa come me. Mi ha colpito il suo spirito, la sua formazione, l'essere rumeno, avere una visione europea e nello stesso tempo americana. Vive infatti da 25 anni a Los Angeles. Mi incuriosiva il suo tecnicismo. In un film di battaglia era fondamentale. E' un regista fuori dal comune che sul set punta alla convivenza tra anime diverse, per poi catturare il meglio nella messa in scena. Questi elementi mi hanno convinto ad accettare".
Una storia universale. Che cosa le ha lasciato?
"Abbiamo girato cinque mesi tra Lituania e San Pietroburgo, un periodo lunghissimo per una produzione televisiva. Il romanzo era entrato nelle viscere di tutti, ne parlavamo continuamente. Facevamo anche fatica a staccarci dai personaggi. Mi è capitato di non trovarmi a mio agio indossando jeans e maglietta. Impiegavo due o tre ore per tornare Alessio Boni. Camminavo tutto impettito e ingessato. E' stata una delle esperienze più forti che abbia mai provato".
Come si è preparato?
"Ho visto dei dipinti all'Hermitage e in altri musei per studiare la postura del Principe Andrei e il suo sguardo. Ovviamente ho riletto Guerra e pace più attentamente sottolineando i passaggi più importanti. Poi l'opera dei costumisti e degli scenografi mi hanno aiutato a calarmi in un altro mondo".
Ha spesso interpretato ruoli complessi, solcati da luci e molte ombre. Il Caravaggio è un altro di questi.
"Mi sono sempre piaciute le sfide, sono così di carattere. Michelangelo Merisi è un personaggio difficile ma bellissimo. Era scritto nel destino che un giorno l'avrei incontrato da vicino. Lui è nato a Caravaggio in provincia di Bergamo, io a Sarnico in provincia di Bergamo. A 21 anni si trasferisce a Roma ed io pure. A 39 anni muore ed io alla stessa età interpreto la sua morte. Mio fratello è sacerdote e anche lui aveva un fratello sacerdote. Adoro i carciofi e altrettanto lui. Insomma tante coincidenze che me lo hanno fatto sentire non così lontano. Per me quattrocento anni sono diventati pochi".
Vorrebbe cambiare registro, magari lavorare in una commedia?
Certo. La stiamo preparando. Finora mi avevano proposto solo ruoli di un certo tipo, di spessore e con forti contrasti interiori. Personaggi che ti rimangono dentro, ti danno tantissimo, anche se scandagliarli è di una difficoltà spaventosa, bisogna lavorarci molto, però quando riesci a leggerli ti arricchiscono umanamente".
Di cosa parla la commedia?
"Di corna, come già raccontava Moliere, uno dei più importanti drammaturghi al mondo. Si intitola "Amore cieco" è scritta da Angelo Longoni (regista di Caravaggio ndr) e uscirà al cinema. Intanto sono sul set di Sangue Pazzo di Marco Tullio Giordana insieme a Luca Zingaretti e Monica Bellucci".
E poi?
"A breve dovrò partire per Trieste, mi sta aspettando il remake di "Rebecca - La prima moglie" di Alfred Hitchcock con la regia di Riccardo Milani. Tra gli interpreti: Mariangela Melato e Cristina Capotondi. Questo invece sarà un prodotto per la tv".
Alla televisione deve molto della sua carriera.
"Sì, ma non solo a lei. Mi ha dato moltissimo il teatro, la radio, il cinema, non riesco a prescindere da questo. Anche la letteratura. Molte cose mi hanno arricchito. Non voglio ghettizzare la tv, la guardo, ha grande potere, ma non posso dimentarmi Strehler, Ronconi o Peter Stain, io vengo da lì. Mi hanno dato tutto loro. Poi è arrivato quel che è arrivato. La piramide inizia da lì".

Emanuele Bigi per spettacoli.tiscali.it
 
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*Ishtar*
view post Posted on 9/7/2008, 15:41




9 luglio 2008

L'intervista

Boni: "Il mio Puccini che entra nel cuore della gente"

di Emanuele Bigi

Alessio Boni è stato il volto televisivo della passata stagione, prima con Guerra e pace, poi con Caravaggio. Sicuramente sarà protagonista anche del prossimo autunno con la fiction dedicata a Giacomo Puccini, in fase di post produzione. Nel frattempo si gode la campagna laziale e gli applausi del pubblico al XX CivitaFestival che gli ha consegnato il Sangallo d'oro come miglior attore, insieme a lui Pupi Avati, il doppiatore e interprete Luca Ward e Lorenza Mazzetti, una delle fautrici del Free Cinema inglese negli anni Cinquanta. Lo incontriamo a tarda notte mentre degusta squisite mousse al limone, caffè e frutto della passione.

Ha scelto di interpretare un altro personaggio che ha segnato la storia, le piacciono i grandi nomi?
"Mi sono sempre piaciute le sfide. Prima di tutto mi ha colpito la sceneggiatura di Francesco Scardamaglia, una rarità, di solito i personaggi "potenti" prendono il sopravvento e invadono anche la parola. La storia parte da Puccini settantaseienne, poco prima della morte, che concede una lunga intervista. Andiamo indietro nel tempo, ai 23 anni quando frequentava il conservatorio a Milano, a 27 alla morte della madre, a 33 quando perde il fratello. Il tutto è giocato sui flashback, si incontrano gli applausi e i boati, ma anche i fischi per la Madama Butterfly. Tutta la sua vita viene descritta attraverso una serie di pennellate, di spunti, senza seguire per filo e per segno gli anni di carriera. Una bella idea, in Rai infatti i flashback non erano ben accetti, con questa fiction si vuole scardinare un po' le regole".

Cosa l'ha colpita di questo personaggio così importante nel mondo della musica classica e dell'Opera?
"Ha sempre cercato di entrare nel cuore della gente, non ha mai voluto essere un intellettuale della musica alta, raffinata, sofisticata ed elitaria. Perché piace Shakespeare o Moliere? Perché partono dal basso per arrivare alla sublime poesia. Puccini partiva sempre dal ruspante toscano che era per poi scrivere Nessun dorma. Questa duplice essenza forgia il genio eterno. Se la poesia rimane solo poesia dopo un po' stanca, c'è bisogno di altro. L'uomo non si ciba solo di caviale, anche se può adorarlo, a un certo punto non vede l'ora di mangiare una rosetta con la mortadella. Puccini possedeva questa dicotomia meravigliosa".

Qual è il suo rapporto con la musica alta?
"Mi fa impazzire, da Bach ai più moderni. Puccini per l'Opera è il non plus ultra insieme a Verdi. Ovviamente ascolto tutta la musica, poi però sento di dover tornare a Bach, un po' come in letteratura che hai bisogno di rileggere Dante. Non dico tutti i giorni ma Beethoven, il Coriolano e l'intermezzo della Cavalleria rusticana li ascolto spesso. La musica classica mi emoziona in modo diverso, a volte la utilizzo per entrare in un personaggio o in una situazione. Ad esempio nella scena della battaglia in Guerra e pace mi sono caricato con Wagner. La musica moderna mi appartiene, è normale, vivo questi tempi e trovo molto bello l'ultimo album di Jovanotti".

Ora ci riveli un segreto, quanto conta la bellezza per un attore?
"Quando sei incerto ti affidi all'estetica. Agli inizi di una carriera e non sei strutturato come attore posso capire che la bellezza sia un po' il lasciapassare. Ma se rimane l'unica caratteristica a cui affidarsi diventa stucchevole. Se sei bello devi riuscire a catturare il pubblico con un altra arma, la bravura. Poi dipende da cosa si vuol fare nella vita, se si punta al fotoromanzo la bellezza è fondamentale. Io non mi sono mai sentito belloccio, ho sempre puntato su altre corde".

Nel futuro cosa ci attende?
"Ritorno a teatro dopo cinque anni di assenza con il testo Il Dio della carneficina della scrittrice parigina Yasmina Reza per la regia di Roberto Andò. A Londra lo sta portando in teatro Ralph Fiennes. Insieme a me ci saranno Silvio Orlando, Anna Bonaiuto e Michela Cescon. Sono molto contento perché il palcoscenico rappresenta le mie radici, il cinema e la tv li ho conquistati dopo sette anni di teatro. Finalmente mi confronto con una commedia, noir. I due grandi mezzi di massa non mi concedono parti leggere allora mi sono aggrappato al mio primo grande amore".

spettacoli.tiscali.it
 
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*Ishtar*
view post Posted on 3/2/2009, 15:57




Alessio Boni a Sumo - 1° febbraio 2009

Il corpo a corpo di domenica primo febbraio è invece con Alessio Boni, attore teatrale, cinematografico e televisivo in questo periodo in tournée nei teatri italiani con Il dio della carneficina di Yasmina Reza . Boni, considerato uno degli attori più sexy, parla di sé. Racconta della sua interpretazione di Puccini (fiction prodotta dalla Rai per il 150esimo anniversario della nascita del compositore) ma anche degli ulivi piantati in campagna e di quella volta che una ragazzina cieca gli disse: "mi colpisci perché sento che parli con il cuore".

www.radio.rai.it/radio2/sumo


Potete scaricare la puntata nella sezione Podcast QUI
 
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*Ishtar*
view post Posted on 2/3/2009, 16:15




1 marzo 2009 - 10:34

Alessio Boni: "Il mio Puccini genio mammone"

L’attore è protagonista della miniserie di Raiuno

Vabbé, non è un gran melomane: è convinto che Carlos Kleiber si chiamasse Kleibert e che Riccardo Muti abbia inciso La Bohème. Però ha studiato e si capisce che ha capito chi era Puccini. E, pur essendo oggettivamente belloccio, non appartiene alla funesta categoria dei belloni senz’arte ma purtroppo con la parte che infestano lo show-biz italiano. Aggiungete che al sor Giacomo un po’ somiglia (ma di più a Donizetti, oltretutto bergamasco come lui: prossimo sceneggiato?). Insomma è Alessio Boni, al momento il più richiesto attor giovane, per quanto solo in quest’Italia babbionocentrica si possa essere considerati giovani a 42 anni. L’intervista si svolge sulla macchina che lo riporta da Roma al casale in provincia di Arezzo dove vive e l’oggetto dovrebbe essere il Puccini televisivo su Raiuno stasera e domani, regia di Giorgio Capitani, con Stefania Sandrelli che fa mamma Albina. Ma con Boni, che non se la tira come gli attori in generale e quelli italiani in particolare, già a Orte siamo alle rimembranze. A Orvieto, alle confidenze.

Come si studia da Puccini?
«Parti dal copione che è bello, ben scritto. Poi te lo dimentichi e fai parlare la musica. Poi cominci ad associare la musica alla personalità. E ci sei. Speriamo, almeno».

Secondo il biografo principe, Mosco Carner, Puccini era ossessionato dalla mamma. Di conseguenza non concepiva le donne se non come madonne o puttane. Quindi l’amata è sempre colpevole, quindi deve espiare. E infatti nelle sue opere muore sempre.
«Davvero? Beh, non mi spingerei fin lì. Di certo per quest’uomo, che aveva perso il padre a 6 anni, il pilastro della vita era Albina. Era terrorizzato dalla sola idea di perderla. Ho letto le sue lettere. Sa quali mi hanno colpito di più? Quelle che scrive alla mamma da Milano, dove fa la fame e il Conservatorio insieme a Mascagni. E le chiede di mandarle il pane toscano e l’olio bòno. Era così: geniale e terragno, artista e contadino».

Anche un gran femminiere.
«Certo, donnaiolo, tombeur de femmes. Ma ridurlo a questo è come dire che Caravaggio, l’altro mio personaggio tivù, era solo un gay. E poi Puccini aveva una moglie sospettosa, isterica, insopportabile».

Insomma, lo giustifica.
«Lo capisco».

Puccini collezionava giocattoli tipicamente maschili: in 28 anni, Julian Budden ha contato 14 automobili e cinque barche...
«È il suo lato adolescenziale. Come quando faceva bisboccia con gli amici sfidandoli a gare di rutti o di peti. E intanto magari scriveva Tosca o Madama Butterfly. Le macchine? Io preferisco le motociclette. E mi piacciono le barche, ma a vela».

E le donne?
«Anche. Però sono fidanzato: si chiama Bianca e non ne parlo perché lei non vuole che se ne parli».

Puccini era del 1858. Quindi il centocinquantenario si festeggiava nel 2008. Perché lo sceneggiato arriva adesso?
«Bisogna chiederlo alla Rai, che prima ci ha fatto una fretta d’inferno perché lo finissimo in tempo e poi l’ha rimandato di mese in mese».

Oltretutto, avendo già in archivio La vita di Puccini con Alberto Lionello.
«Del ’72, regia di Sandro Bolchi. Bellissimo. L’ho visto due volte di fila, poi ho telefonato alla Rai per suggerire di ridare quello».

Cosa le hanno risposto?
«Che volevano qualcosa di nuovo».

Il suo Puccini preferito?
«Sarò banale: La Bohème. Forse perché ne ho fatta tanta».

Partendo da dove?
«Da Villongo, 4 mila abitanti, provincia di Bergamo. Famiglia tutta di piastrellisti: papà, nonno, zio. Del resto, lì o fai il piastrellista o fai il piastrellista».

Tranne lei.
«Sono diventato ragioniere alle scuole serali. E poi poliziotto: Celere a Milano, tutte le domeniche servizio d’ordine a San Siro».

Di manganellate ne ha date?
«Beh, sì. In certi momenti, o le prendi o le dai. Allora meglio darle».

Quando si è stufato?
«Dopo un anno e mezzo. Credevo di diventare Serpico, invece la caserma è un’altra cosa. E sono andato in America».

A far che?
«Ufficialmente, a studiare l’inglese. In realtà, a sognare. Facendo nel frattempo di tutto, dal baby sitter alla consegna dei giornali all’alba. Sei mesi e basta, perché non avevo la green card. Tornare a Villongo da New York è stata dura. Mi hanno salvato i villaggi vacanze».

Come Fiorello.
«Facevo l’animatore e per la prima volta sono salito su un palco. Mi è piaciuto. Sempre per la prima volta, ho sentito parlare del Centro sperimentale di cinematografia. Arrivo al provino. In commissione ci sono Comencini, Bolognini e la Masina. Entro, saluto e Comencini chiede subito: Bergamo o Brescia? Ci misi poi due anni, per perdere l’accento...».

Restiamo all’audizione.
«Mi chiedono: dov’è la spalla? Io: quale spalla? Loro: giovanotto, nel bando c’è scritto duetto. Non l’avevo capito. Ho duettato da solo: facevo due che litigano cambiando la voce».

L’hanno presa?
«No. Mi piazzai undicesimo ed entravano i primi dieci. Ma credo che si siano divertiti».

Quindi, Villongo?
«No, Roma. Senza una lira: dormivo in Panda e per fare la doccia mi iscrissi a una palestra. Lavoravo al Puff di Lando Fiorini come cameriere e studiavo recitazione. Poi vidi La gatta Cenerentola di De Simone. Mi scoperchiò la testa. Mi innamorai del teatro come un pazzo e al secondo tentativo fui preso all’Accademia. Il resto si sa».

La svolta?
«Con La meglio gioventù. Uno dei pochi film italiani recenti che hanno davvero fatto il giro del mondo».

Non è un po’ troppo bello per essere anche bravo?
«È l’unica cosa che mi dà fastidio che si dica di me. Intanto perché odio quelli che esibiscono la bellezza. E poi perché, alla fine, i miei quattro anni di Accademia (e sette di teatro) li ho fatti».

Chi è il miglior attore italiano?
«Forse Sergio Castellitto».

E la miglior attrice?
«Sicuramente Mariangela Melato».

Fra dieci anni dove si vede?
«In teatro. Il teatro è il cordone ombelicale».

Personaggio della vita?
«Raskolnikov in Delitto e castigo. Se si riuscisse a portarlo in scena».

Gli Stabili sono davvero da buttare?
«Ogni tanto sono un po’ stantii. Mi piacerebbe formare una compagnia vera, come quelle di una volta. Tutti giovani, bravi e piani d’energia».

Chi le piace della sua generazione?
«Luigi Lo Cascio, Fabrizio Gifuni e Pierfrancesco Favino. Bravissimi».

Confessi: se le proponessero un cinepanettone, lo farebbe di corsa.
«Con tutto il rispetto per chi li fa, no».

Ma ormai Christian De Sica è considerato un maître à penser!
«Giusto: ha talento e ha seguito con determinazione la sua strada. Che non è la mia».

Brillante promessa, solito stronzo e venerato maestro: valgono anche per gli attori i tre stadi della carriera secondo Arbasino. Lei come si colloca?
«Diciamo... venerato stronzo? Che vuole, venerato un po’ lo sono: mi sta andando tutto così bene...».

Alberto Mattioli per www.lastampa.it

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14 replies since 19/11/2005, 22:36   2245 views
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