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Le InTeRViSTe

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*Ishtar*
view post Posted on 2/3/2009, 16:15 by: *Ishtar*




1 marzo 2009 - 10:34

Alessio Boni: "Il mio Puccini genio mammone"

L’attore è protagonista della miniserie di Raiuno

Vabbé, non è un gran melomane: è convinto che Carlos Kleiber si chiamasse Kleibert e che Riccardo Muti abbia inciso La Bohème. Però ha studiato e si capisce che ha capito chi era Puccini. E, pur essendo oggettivamente belloccio, non appartiene alla funesta categoria dei belloni senz’arte ma purtroppo con la parte che infestano lo show-biz italiano. Aggiungete che al sor Giacomo un po’ somiglia (ma di più a Donizetti, oltretutto bergamasco come lui: prossimo sceneggiato?). Insomma è Alessio Boni, al momento il più richiesto attor giovane, per quanto solo in quest’Italia babbionocentrica si possa essere considerati giovani a 42 anni. L’intervista si svolge sulla macchina che lo riporta da Roma al casale in provincia di Arezzo dove vive e l’oggetto dovrebbe essere il Puccini televisivo su Raiuno stasera e domani, regia di Giorgio Capitani, con Stefania Sandrelli che fa mamma Albina. Ma con Boni, che non se la tira come gli attori in generale e quelli italiani in particolare, già a Orte siamo alle rimembranze. A Orvieto, alle confidenze.

Come si studia da Puccini?
«Parti dal copione che è bello, ben scritto. Poi te lo dimentichi e fai parlare la musica. Poi cominci ad associare la musica alla personalità. E ci sei. Speriamo, almeno».

Secondo il biografo principe, Mosco Carner, Puccini era ossessionato dalla mamma. Di conseguenza non concepiva le donne se non come madonne o puttane. Quindi l’amata è sempre colpevole, quindi deve espiare. E infatti nelle sue opere muore sempre.
«Davvero? Beh, non mi spingerei fin lì. Di certo per quest’uomo, che aveva perso il padre a 6 anni, il pilastro della vita era Albina. Era terrorizzato dalla sola idea di perderla. Ho letto le sue lettere. Sa quali mi hanno colpito di più? Quelle che scrive alla mamma da Milano, dove fa la fame e il Conservatorio insieme a Mascagni. E le chiede di mandarle il pane toscano e l’olio bòno. Era così: geniale e terragno, artista e contadino».

Anche un gran femminiere.
«Certo, donnaiolo, tombeur de femmes. Ma ridurlo a questo è come dire che Caravaggio, l’altro mio personaggio tivù, era solo un gay. E poi Puccini aveva una moglie sospettosa, isterica, insopportabile».

Insomma, lo giustifica.
«Lo capisco».

Puccini collezionava giocattoli tipicamente maschili: in 28 anni, Julian Budden ha contato 14 automobili e cinque barche...
«È il suo lato adolescenziale. Come quando faceva bisboccia con gli amici sfidandoli a gare di rutti o di peti. E intanto magari scriveva Tosca o Madama Butterfly. Le macchine? Io preferisco le motociclette. E mi piacciono le barche, ma a vela».

E le donne?
«Anche. Però sono fidanzato: si chiama Bianca e non ne parlo perché lei non vuole che se ne parli».

Puccini era del 1858. Quindi il centocinquantenario si festeggiava nel 2008. Perché lo sceneggiato arriva adesso?
«Bisogna chiederlo alla Rai, che prima ci ha fatto una fretta d’inferno perché lo finissimo in tempo e poi l’ha rimandato di mese in mese».

Oltretutto, avendo già in archivio La vita di Puccini con Alberto Lionello.
«Del ’72, regia di Sandro Bolchi. Bellissimo. L’ho visto due volte di fila, poi ho telefonato alla Rai per suggerire di ridare quello».

Cosa le hanno risposto?
«Che volevano qualcosa di nuovo».

Il suo Puccini preferito?
«Sarò banale: La Bohème. Forse perché ne ho fatta tanta».

Partendo da dove?
«Da Villongo, 4 mila abitanti, provincia di Bergamo. Famiglia tutta di piastrellisti: papà, nonno, zio. Del resto, lì o fai il piastrellista o fai il piastrellista».

Tranne lei.
«Sono diventato ragioniere alle scuole serali. E poi poliziotto: Celere a Milano, tutte le domeniche servizio d’ordine a San Siro».

Di manganellate ne ha date?
«Beh, sì. In certi momenti, o le prendi o le dai. Allora meglio darle».

Quando si è stufato?
«Dopo un anno e mezzo. Credevo di diventare Serpico, invece la caserma è un’altra cosa. E sono andato in America».

A far che?
«Ufficialmente, a studiare l’inglese. In realtà, a sognare. Facendo nel frattempo di tutto, dal baby sitter alla consegna dei giornali all’alba. Sei mesi e basta, perché non avevo la green card. Tornare a Villongo da New York è stata dura. Mi hanno salvato i villaggi vacanze».

Come Fiorello.
«Facevo l’animatore e per la prima volta sono salito su un palco. Mi è piaciuto. Sempre per la prima volta, ho sentito parlare del Centro sperimentale di cinematografia. Arrivo al provino. In commissione ci sono Comencini, Bolognini e la Masina. Entro, saluto e Comencini chiede subito: Bergamo o Brescia? Ci misi poi due anni, per perdere l’accento...».

Restiamo all’audizione.
«Mi chiedono: dov’è la spalla? Io: quale spalla? Loro: giovanotto, nel bando c’è scritto duetto. Non l’avevo capito. Ho duettato da solo: facevo due che litigano cambiando la voce».

L’hanno presa?
«No. Mi piazzai undicesimo ed entravano i primi dieci. Ma credo che si siano divertiti».

Quindi, Villongo?
«No, Roma. Senza una lira: dormivo in Panda e per fare la doccia mi iscrissi a una palestra. Lavoravo al Puff di Lando Fiorini come cameriere e studiavo recitazione. Poi vidi La gatta Cenerentola di De Simone. Mi scoperchiò la testa. Mi innamorai del teatro come un pazzo e al secondo tentativo fui preso all’Accademia. Il resto si sa».

La svolta?
«Con La meglio gioventù. Uno dei pochi film italiani recenti che hanno davvero fatto il giro del mondo».

Non è un po’ troppo bello per essere anche bravo?
«È l’unica cosa che mi dà fastidio che si dica di me. Intanto perché odio quelli che esibiscono la bellezza. E poi perché, alla fine, i miei quattro anni di Accademia (e sette di teatro) li ho fatti».

Chi è il miglior attore italiano?
«Forse Sergio Castellitto».

E la miglior attrice?
«Sicuramente Mariangela Melato».

Fra dieci anni dove si vede?
«In teatro. Il teatro è il cordone ombelicale».

Personaggio della vita?
«Raskolnikov in Delitto e castigo. Se si riuscisse a portarlo in scena».

Gli Stabili sono davvero da buttare?
«Ogni tanto sono un po’ stantii. Mi piacerebbe formare una compagnia vera, come quelle di una volta. Tutti giovani, bravi e piani d’energia».

Chi le piace della sua generazione?
«Luigi Lo Cascio, Fabrizio Gifuni e Pierfrancesco Favino. Bravissimi».

Confessi: se le proponessero un cinepanettone, lo farebbe di corsa.
«Con tutto il rispetto per chi li fa, no».

Ma ormai Christian De Sica è considerato un maître à penser!
«Giusto: ha talento e ha seguito con determinazione la sua strada. Che non è la mia».

Brillante promessa, solito stronzo e venerato maestro: valgono anche per gli attori i tre stadi della carriera secondo Arbasino. Lei come si colloca?
«Diciamo... venerato stronzo? Che vuole, venerato un po’ lo sono: mi sta andando tutto così bene...».

Alberto Mattioli per www.lastampa.it

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